30 aprile 2006

ARA PACIS DI MEIER. L'arroganza del "monumento sopra il monumento"

"Quelli che dicono sempre di no", scrivono i giornalisti leccapiedi - che devono arruffianarsi i sindaci - pensando a noi progressisti che critichiamo le violenze estetiche sul centro storico di Roma. Una città unica al mondo, nella quale non sono sopportabili le convenzioni, gli accomodamenti e le mezze misure che si vedono in altre città. Ma questa volta la teca dell'architetto americano Meier sopra l'Ara Pacis, tra il lungotevere e la piazza Augusto Imperatore disegnata da Morpurgo e dagli altri architetti degli anni Trenta, è davvero troppo pretenziosa, contrastante e magniloquente. Non si accorda nè con lo stile della piazza, che ha una sua unità stilistica ("architettura fascista", diciamo, l'unica cosa che, per quanto anch'essa discutibile - si vedano le statue grottesche - riuscì bene, anzi benino, al fascismo...), né con l'ambiente del Settecento tutt'intorno, tantomeno con le spallette sul Tevere, a pochi metri. E quando i platani, d'inverno, non hanno le enormi chiome che sembrano cadere in acqua, lo spettacolo è davvero fastidioso fin da lontano. Un pugno nell'occhio (v. foto).
Ed è l'inutile pronao, quasi un atrio del tempio (tempio del Kitsch, del cattivo gusto che ricorda lo stile degli effimeri padiglioni di esposizioni), che rende l'opera più esagerata di quanto non sia, così lunga da sfiorare l'antica chiesa dei Croati. Ma anche lo spazio all'interno è volgare, con la vistosa intrusione di due colonne portanti che deturpano la prospettiva grandangolare (non si potranno più prendere foto professionali dell'Ara Pacis con obiettivi di 35 mm) immiserendo con banali superfici convesse l'area di rispetto davanti al parallelepido sacro.
Al limite - ma è evidente che lì non ci devono essere colonne di sorta - avrebbero stonato di meno due colonne a sezione quadrata.
Certo, il "monumento sul monumento", ricordiamolo, è già un'arroganza culturale. Serviva una semplice copertura dalle intemperie per il capolavoro della Ara Pacis Augusti. Bastava la teca di travertino e cristallo dell'architetto razionalista Morpurgo, già di per sé bruttina con quel parallelepipedo e quel testo lunghissimo inciso, ma che pur offendendo le forme tonde delle cupole vicine rivelava almeno una continuità stilistica con la piazza.
Ora, invece, l'interpretazione modernista di Meier appare una violenza, anzi una prepotenza narcisistica, con un kitsch vagamente alla Disney, un po' da cinematografari di Hollywood. Come se il disegnatore di oggi dopo aver demolito la teca di ieri volesse prevalere e farsi bello con una grande, effimera, costruzione di gesso e cartapsta da film, a spese del capolavoro dell'altro ieri. Il contenitore che alza la cresta e si mette in mostra a scapito del prezioso contenuto. Un paradosso urtante.
Mi dispiace, ma i sindaci "progressisti" (a parole) Rutelli, che commissionò l'opera come un principe d'altri tempi, senza concorso, e Veltroni che l'ha gestita fino ad oggi, hanno torto. Mentre il candidato sindaco Alemanno, "reazionario" (sempre a parole"), ha ragione. Sì, lo so, una vicinanza un po' imbarazzante. Ma così è la vita: alle volte hanno ragione le persone che non dovrebbero averla.
D'accordo con la benemerita Italia Nostra, che da dieci anni metteva in guardia le autorità capitoline dal perpetrare questo inutile e costosissimo (si parla di 15 milioni di euro) sfregio al centro storico di Roma, che ora interrompe la continuità stilistica e costituisce un pericolosissimo precedente per le prevedibili altre pazze proposte di amministratori locali senza cultura né buonsenso.
L’ inaugurazione del nuovo museo Meier dell’Ara Pacis, a Roma hanno spinto Italia Nostra ad intervenire per ribadire l’estraneità dell’associazione alle polemiche politiche in corso, ma anche per rivendicare la giustezza delle previsioni che da circa 10 anni hanno visto la storica associazione a identificare nel progetto Meier il vero e proprio grimaldello urbanistico e culturale nei confronti del centro storico romano, destinato a porre fine all’ intangibilità dei centri storici italiani (quello di Roma, in particolare).
Questo è l’inizio della colonizzazione culturale della architettura-spettacolo omologata. Il problema non è estetico, se cioè la teca di Meier sia in sé "bella o brutta", ma culturale ed urbanistico. E' in pieno centro storico: una mole che mette fuori scala gran parte degli edifici circostanti, insiste sull’antico Porto di Ripetta precludendo definitivamente il rapporto della piazza con il fiume, interrompe il "filo" stradale allineato della via Ripetta e incombe in maniera inaccettabile sulle splendide chiese di S.Rocco e di S. Girolamo. Come se non bastasse, è pronto anche il bando per un sottopasso stradale proprio sotto il nuovo museo.
Siamo d'accordo. Il che non significa ostracismo all'arte moderna e contemporanea - precisa il presidente di Italia Nostra, Carlo Ripa di Meana - ma l'assoluta contrarietà ad ogni intervento moderno nei centri storici, che sono beni culturali complessi, unitari e compiuti, sui quali non abbiamo il diritto di intervenire con modifiche che non siano restauri ed ordinaria manutenzione. Questa è la vera "modernità", ripetevano Antonio Cederna e Mario Fazio. Ma oggi i politici "progressisti" sembrano aver dimenticato quella lezione.
Il museo dell’Ara Pacis - conclude Ripa di Meana - è figlio di una vecchia, vecchissima cultura, oggi tornata imperante, che pretende di risolvere le problematiche sociali ed urbanistiche delle nostre città con la matita del famoso architetto di turno, con l'ennesima spettacolare "Grande Opera", addirittura in pieno Centro, strumentalizzando e "turisticizzando" in modo vergognoso l'opera d'arte, aggiungiamo.

09 aprile 2006

INCUBI. Al seggio come al Golgota. Liberali alle urne. Perplessi

Stranieri in Patria. Sì, ormai ci resta solo il lusso di questa maiuscola. I liberali che hanno fatto dell’Occidente il Paradiso in Terra, in Italia si sentono la terra dell’Inferno. Esagerazione? E allora, diciamo, sono in una situazione più ambigua, e perciò più pericolosa. Come gli ebrei sotto il Gran Muftì arabo nella Gerusalemme degli anni ’30 e 40: "tollerati" ufficialmente, nascostamente perseguitati.
Ditemi voi come interpretare la scientifica eliminazione di quasi tutti i candidati liberali dalla Destra e dalla Sinistra. Tranne i radicali nella Rosa del pugno, s’intende, ma quelli sono la specie più selvatica, allevata in modo spartano e razionale in apposite gabbie a cielo aperto da Pannella, e perciò più robusta e molto più adatta al combattimento di quegli smidollati di liberalini-snob.
Eliminati dalle liste quasi ovunque, i liberali sopravvivono senza alcuna possibilità di essere eletti in Lombardia, Campania, Calabria e Sicilia (Pli), in Veneto, Puglia e Sicilia (Riformatori liberali). Di quest’ultima formazione Della Vedova è l’unico sicuro dell'elezione, ma è presentato in FI, come Calderisi, che però ha minori possibilità. Silenzio dai poco candidi candidati Martino e Biondi (FI) e Zanone (Margherita), che evidentemente non vogliono più farsi notare come "pericolosi liberali". Semmai se ne dovesse accorgere il cardinal Mazza-Ruino.
Gli unici che hanno avuto il coraggio di parlare (e mai in modo estremistico), anche contro l’Unione, che li teme come il demonio facendo finta di amarli, sono i Radicali nella Rosa del pugno. Dopo l’ascesi mistica da digiuno, ecco la giusta ascesa del contrappasso Divino: da eterni sfigati a lista trendy, alla moda. Quando si dice una Nemesi che funziona. Già al comizio di piazza Navona si sono riviste dopo trent’anni le prime fighe radicali (non sono le stesse: le nipoti) e anche i giocolieri. Amarcord morboso? No, davvero sembrava un revival degli anni 70-80, anni turbolenti, ma i migliori dei radicali. Mancava solo Cavallo pazzo, quello che mi rubava il trench e chiedeva le 10 mila a tutti i giornalisti. Eh, che vuol dire il successo. Invidiatissimi dai cugini liberali. Ora si faranno le più belle fighe dei salotti, pensano diessini e forzitalioti, molto simili tra loro, gente concreta che il successo lo vede così.
Ma stamattina non mi sento bene. Gli occhi mi si appannano. Guardie svizzere presidiano i seggi. Il "delegato" si aggira occhiuto tra i votanti. "Chi sgarra nella segreta finisce, mizzica", minaccia un brigadiere con targhetta SCV. Che mal di testa. Vedo che il presidente di seggio veste una lunga tonaca rosso-violetto e ha in testa la papalina. Mah, sarà la nuova divisa dei presidenti di seggio. Gli scrutatori sono tutti in clergymen. Non si parla, si bisbiglia. Traversando la sala del seggio noto che tutti si genuflettono rivolti al tabernacolo. Dove intanto l'officiante ripone con gesti calibrati e ieratici le particole consacrate cartacee. Ma è tutto vero o è un incubo. Non saprei. E poi, in che secolo siamo? Non si sa. "Una statua della Madonna a grandezza d’uomo presidierà il locale pubblico adibito alle sacre votazioni", minaccia con sprezzo dell'umorismo involontario un cartello con le chiavi di S.Pietro. Lontani i tempi atei, anzi, peggio, laicisti, in cui nelle cappelle delle elezioni c’era solo un piccolo crocifisso. Così piccolo che tutti se ne fregavano. Tanto che qualcuno, non visto, si grattava pure le palle. E se la Madonna guarda come voti? Ma il voto non è segreto? Oddio, che tanfo di muffa. E di naftalina. Sarà per le vecchie tonache tirate fuori all'ultimo momento dai bauli della sacrestia. Sanfedisti del cardinale Ruffo, reazionari di Destra e Sinistra, a noi! All’odore dolce delle candele di paraffina si sovrappone quello acre dell’incenso. Mamma, mamma, perché il seggio è in chiesa? Zitto e vota. La processione dei votanti è scossa da un fremito: qualcuno si commuove. Non vorrei che per un miracolo si sciogliesse anche il sangue del vescovo presidente di seggio. Papà, papà, che fa quell’uomo nero con la candela in cabina? Silenzio e fai la croce. Stupido, sulla scheda. O che voluttuosa confusione di sensi, o qual piacevole deliquio. "Contessina, ecco i sali". Ma in che secolo siamo? "Gertrude (nome antiquato), a che ora ci sarà l’udienza di papa Pio IX per la nobiltà nera? Come, non c’è più…Gesummaria, un attentato?" Tutta colpa di quei puttanieri o gay, a scelta (si decidano, però) dei liberal-radicali. Sicuramente sono i masnadieri Capezzone e Cappato, anzi no, i Liberi Muratori (polacchi, che nelle ristrutturazioni degli appartamenti costano meno), ma che dico, dei "dinamitardi" Carbonari. Sono predestinati: essendo già di carbone mangiano zolfo e clorato di potassio, basta un fiammifero e …pum! Mi fischia uno zuavo pontificio biancovestito. No, non voglio finire a Castel S.Angelo. "Dicaaa! A dotto’, guardi che lì ‘a macchina 'sta male'…" Mi riprendo, vado a... soccorrerla.
L'incubo è svanito. "Saliamo al seggio come a un piccolo Golgota", dice l’amico liberale che ama le frasi ad effetto, mentre traversiamo il parco un po’ scosceso per andare a votare. Ma tu non mi ascolti. Che ti succede? Non so, ma stamattina proprio non mi sento bene. Gedda e i Comitati civici dicevano che votare fa tanto bene allo Spirito (ah, ma allora è una fissazione), ma a me liberale sembra, visto il fiatone, che faccia male anche al corpo. Fortuna che ci stanno almeno Emma, Marco e Daniele.

07 aprile 2006

BISTECCHE E FOCHE. L'Italia dice no alle seconde: una non-notizia

Nel Regno Unito sarebbe stata data con grande risalto in prima pagina, in Italia è una non-notizia per molti giornali: messa nelle pagine interne o ripresa pari pari nel burocratico linguaggio del giornalismo d’agenzia. Così, ci era sfuggita, eppure è dal 13 febbraio che la news è stata pubblicata (p. es. dal sito web della Stampa, da cui la riprendiamo).
Sarà firmato nei prossimi giorni un decreto interministeriale per bloccare l'importazione in Italia di pelli di foca. Lo ha annunciato il vice ministro alle Attività produttive con delega al Commercio estero, Adolfo Urso, durante una conferenza stampa organizzata insieme alla Lav. "Da oggi è intanto operativo un atto d'indirizzo politico vincolante - ha spiegato Urso - per il divieto di importazione con fini commerciali sul territorio italiano di pelli di cuccioli di foca". Il decreto interministeriale prevede l'introduzione di un regime di licenze restrittivo per l'importazione di pelli di foca anche adulta, non solo cuccioli, anche perchè vengono considerati piccoli solo gli esemplari fino a 13 giorni. "Saremo più severi del Belgio nel non rilasciare licenze - ha avvertito Urso - di fatto è un blocco. Vogliamo essere un esempio, uno stimolo per aprire un'altra e più grande battaglia: quella di vietare l'importazione di qualunque animale ucciso in modo barbaro".In Parlamento è stata inoltre depositata una proposta di legge sottoscritta da venti parlamentari della Casa delle Libertà che prevede il blocco delle pelli di foca. "E chiediamo all'Unione europea - ha proseguito Urso - di attivarsi affinchè realizzi una normativa vincolante per tutti i 25 paesi dell'Unione come è stato fatto per le pelli dei cani e dei gatti. L'Italia vuole essere in prima linea in questo impegno civile e morale". Urso ha quindi suggerito di "etichettare" le pelli e le pellicce per rendere il cittadino consapevole di ciò che acquista, con una sorta di "marchio etico". Il valore delle importazioni di pelli di foca in Italia è ormai molto basso, pari a circa 60.000 euro, ha evidenziato Roberto Bennati della Lav, ma è un business che si sta spostando verso i mercati emergenti come la Cina, l'India e l'Indonesia. "Si stima che in Canada siano state uccise circa un milione e mezzo di foche - ha riferito Bennati - ben oltre il milione previsto dal piano triennale del governo, che si è chiuso nel 2005, e che comunque ha approvato il più grande prelievo di mammiferi per fini commerciali mai realizzato". In questi giorni il Canada sta per definire le nuove quote per la caccia alle foche. Secondo quanto risulta alla Lav, si profila una carneficina di circa 3 milioni di animali in cinque anni, su cinque milioni di esemplari presenti nel paese.
Che aggiungere? Qualche blogger si entusiasma dicendosi "fiero di essere italiano". E intanto azzanna la sua bistecca ottenuta da un giovane vitello allevato in cattività e poi ucciso con scariche elettriche o con una mazzata sulla testa. Certo, siamo contenti, ma non mancano atti del genere nella nostra tradizione, quel che difetta è la coerenza. Intanto, An – partito del vice-ministro D’Urso - non è il partito della caccia, che si è opposto sempre alla limitazione, non diciamo all’eliminazione di questo barbaro sport? Come mai la foca no e la selvaggina italiana sì? Anche di recente, An e spesso anche FI, hanno approvato o presentato deroghe ed estensioni ai limiti della precedente legge sulla caccia. Qui, nel caso delle foche si stigmatizzano giustamente le uccisioni barbare. Ma esistono uccisioni umanitarie? E non è forse l’uccisione in sé che bisogna evitare, tanto più quando è inutile? Se la foca svernasse in Italia, sicuramente An si opporrebbe al divieto di cacciarla.
Come vegetariano dal 1970, primo promotore del I Referendum anticaccia, fondatore del primo club ecologista in Italia, la Lega Naturista (che diffuse per prima in Italia tra tanti che poi divennero Verdi, e alcuni purtroppo più rossi che verdi, tutti i temi della riforma naturista della vita, dall’alimentazione naturale all’agricoltura biologica, dalla tutela di piante, animali e ambiente alle energie pulite, dall’autosufficicnea all’escursionismo e al nudismo), sono come minimo perplesso e ironico di fronte a questa che i giornali italiani hanno giudicato una non-notizia. Evviva l’animalismo, certo, bene l’ecologia (le foche rischiano di scomparire), ma la coerenza personale? Insomma, l’ecologia non basta, ci vorrebbe una mentalità naturistica. Senza nessun fanatismo o fondamentalismo, sia chiaro, da liberali. Anzi, è la ragione, in questa squallida faccenda tutta giocata tra uomini e animali, che difetta.

04 aprile 2006

NUOVE "APERTURE". Dalle mura del Vaticano un pugno nell'occhio

Finora le massicce e rinascimentali Mura Vaticane, viste dall’angolo visuale di via Leone IV e piazza del Risorgimento, erano un bel vedere, davano l’idea della continuità architettonica, un unicuum poderoso che si snodava senza soluzione di continuità tra angoli e spigoli acuti degni di antichi bastioni militari. Ora, invece, le mura sono state sfregiate. La continuità di forme e colori è stata brutalmente interrotta. Da un gesto sottoculturale, si direbbe. Da chi non ha calcolato l’impatto estetico e visivo sul lato esterno rispetto al Vaticano, cioè il lato "italiano" che dà su piazza del Risorgimento. Un mezzo disastro estetico.
Una nuova apertura della Città del Vaticano, e non in senso figurato ma materiale, è stata malamente chiusa da un’orribile porta metallica d’un incredibile color rosso rame chiaro che non ha proprio nulla a che fare col colore del bronzo nuovo, sia pure non ancora ossidato. E se fosse metallo anodizzato? Ora è davvero un pugno nell’occhio del passante.
La nuova porta di Santa Rosa, inaugurata da poco più di un mese, colpisce negativamente i turisti per il contrasto esagerato tra la modernità stilistica e la brillantezza abbacinante del rosso lucido, da una parte, e l’opacità terrea delle mura che vira sui toni dell'ocra chiaro dei laterizi, dall'altra. Ed è brutta anche come scultura di fusione in sé, cioè dal punto di vista compositivo: quattro moderne ante concave e lisce, come lunghissimi scudi romani senza decorazioni, tranne due stemmi, di acceso color rame, con una vistosa banda orizzontale contenente il nome del papa, fanno a pugni con le stesse mura, in un contrasto sgradevole e pacchiano.
Siamo abituati all’estetica sottoculturale e al cattivo gusto provinciale che accomuna un po’ tutte le cose vagamente "artistiche" che fa la Chiesa negli ultimi tempi, dalle nuove chiese fino al presepio di piazza S.Pietro. Un cattivo gusto che questa volta, però, deturpa anche una piazza laica per eccellenza, come piazza del Risorgimento. E male ha fatto il Comune di Roma, che ha gestito l'apertura della porta d'accordo col Vaticano, a non far prevalere le ragioni della continuità stilistica.
D'accordo, saremo prevenuti, ma nel confronto tra la dignità piccolo borghese dei palazzoni dell’Italietta laica e liberale, anch'essi giocati su due toni del giallo ocra, e la dirimpettaia, rosseggiante e cafonesca, porta di rame liscio, proprio nella piazza che anche nel nome fa da confine tra le due culture, è di gran lunga la prima ad avere la meglio.
L'ultima volta i bersaglieri del generale Cadorna rispettarono Porta Pia (anche perché da buoni piemontesi sapevano che poi gli sarebbe servita funzionante) e si limitarono a un grande foro nelle mura vicine, poco costoso da riparare. Ma la prossima volta, in caso di "vertenza" insanabile col Vaticano, suggeriamo alla "artiglieria laica" di fare breccia proprio nell'orribile Porta di S.Rosa. A piazza del Risorgimento, appunto.

CENTRI STORICI. Vuoi usare uno spazio limitato? Paga il biglietto

I centri storici in Italia non sono adatti alle automobili e agli autobus. Risalgono al Seicento o Settecento (Roma), al Rinascimento (Firenze), addirittura al Medioevo (Umbria), quando la gente andava per lo più a piedi. Già nell'Ottocento le troppe carrozze a cavalli creavano ingorghi paurosi e snervanti nel Corso, a Roma. Ovunque strade strette, marciapiedi piccoli o inesistenti. Ma questo i cittadini di oggi non lo capiscono. Pretendono di viaggiare in automobile anche nei vicoli di Trastevere. Come se l'uso dell'auto fosse un "diritto assoluto" indipendente da altri fattori limitanti. Quello che è più grave è che se trovano divieti blaterano di mancanza di "libertà". In realtà, specialmente i romani, non sanno nemmeno che cos'è la libertà.
Ma ora l'inquinamento e la materiale impossibilità di procedere in auto stanno facendo cambiare idea a parecchia gente, compresi alcuni amministratori, sempre preoccupati di non essere rieletti e di dispiacere ai propri elettori.
"Il modello londinese della «congestion charge» - scrive il Corriere della Sera in Cronaca di Roma - comincia a fare adepti anche in Italia. Come nella Londra di Ken «il rosso», anche nella Bologna di Cofferati sarà possibile, per i non residenti, recarsi in centro in auto pagando un ticket giornaliero. È una notizia interessante perché questo meccanismo, sperimentato con successo non solo a Londra, ma anche in altre città del nord Europa come Oslo, adesso viene importato anche in Italia e potrebbe contagiare altre città come Roma. Così come il pedaggio londinese, l’esperimento che si sta per intraprendere a Bologna è basato su un principio sacrosanto: che lo spazio urbano è un bene pubblico scarso e che la sua utilizzazione eccessiva, provocando congestione, impone un costo elevato alla collettività. Chi pertanto vuole o deve usare la macchina anche quando il traffico è elevato deve pagare. Certo, questo crea una disparità tra chi ha il privilegio di trovarsi in centro e chi deve muoversi dalle periferie, ma è molto meglio dei divieti assoluti o del caos provocato dall’assenza di regolazione. E poi, se i proventi del pedaggio sono devoluti, come a Londra, al potenziamento dei servizi pubblici i vantaggi sociali diventano significativi".
A noi sembra un sacrosanto principio liberale. Ai cittadini bisognerebbe fare questo discorso franco. Lo spazio nei Centri storici è pochissimo e di tutti. Tutti hanno diritto di usarlo. Già se tutti uscissero di casa a piedi, ci sarebbe un ingorgo insopportabile. Vuoi usare quello spazio limitato con la tua auto (che occupa lo spazio di almeno 5-8 persone e inquina)? Benissimo, ma renditi conto che un'auto - anche se fosse vecchia e senza valore - nei vicoli d'una città antica è un lusso. Un lusso nel senso di disponibilità esclusiva di spazio, tanto più se a vantaggio d'una persona sola. Paga, dunque, questo lusso, questo privilegio, con un biglietto d'ingresso. Per esempio 5 euro al giorno, salvo abbonamenti. In tal modo risarcirai gli altri cittadini e pagherai la manutenzione stradale e i danni ambientali.
Ma un discorso del genere sarebbe molto impopolare in Italia, e specialmente a Roma. E so anche che la componente anarco-individualista dei liberali non sarà d'accordo: ma loro, si sa, non sono davvero liberali.

03 aprile 2006

FURBI ALL'ITALIANA. Il mostro di Punta Perotti e i "limiti" liberali

Era ora che in Italia, l'Italia dei condoni e delle sanatorie, si distruggesse un enorme complesso edilizio brutto e sfacciatamente abusivo. L'orribile e illegale palazzone-mostro di Punta Perotti, sul lungomare di Bari, costruito dieci anni fa a pochi metri dal mare, aveva deturpato in modo grossolano il panorama barese. Finalmente, è stato in gran parte abbattuto con cariche di esplosivo, e alla fine del mese sarà definitivamente ridotto in macerie. Evviva.
Bisognava non solo eseguire una sentenza della Cassazione, ma anche dare un esempio positivo ai cittadini, frastornati da ordinanze, leggi e sentenze contradditorie di sindaci, provincie, regioni, Tar, Consigli di Stato, Tribunali, e così via, tanto da non saper più distinguere il diritto dalla prepotenza, la furbizia di pochi e i diritti - cioè le libertà - di tutti.
Per questo, come liberali e come ambientalisti, esprimiamo tutto il nostro consenso all'abbattimento. Anzi, bisognerebbe distruggere anche tutto il brutto e abusivo (o ex-abusivo) che rovina la ex Bella Italia. Peccato soltanto che abbattere oggi costi quasi come costruire. L'Italia ha solo l'Arte e il Paesaggio come patrimonio nazionale. E la bellezza della natura o l'armonia dell'ambiente, anche urbano, sono diritti e libertà di tutti. Dopotutto la "visuale" o "l'affaccio", a livello privatistico erano tutelati perfino dai codici dell'Ottocento. Ma oggi, con l'aggravarsi dell'urbanizzazione, chi attenta a questi due ineguagliabili primati italiani, Arte e Paesaggio, deve essere severamente punito. Gli enti locali, i giudici, lo Stato, se non capiscono questo sono ottusi e inadeguati al loro compito. Anche nei paesi anglosassoni, se non ci fossero controlli e i giuidici non avessero buon senso, i furbi e prepotenti farebbero come in Italia. L'uomo è quello che è. La differenza è che lì esiste il controllo sociale (i cittadini cercano di convincere, protestano e magari denunciano), i controlli sono severi, le pene certe e inesorabili. Da noi - il che dimostra che è un malcostume radicato - se in un gruppo di amici uno getta un bicchiere di plastica o un pacchetto di sigarette sulla strada, gli altri non si azzardano a dirgli nulla
E poi, sul piano delle libertà, chi si prende una libertà tutta per sé, cioè il prepotente, non solo non è "liberale", ma è proprio il suo opposto: un fascista o un comunista (tanto per fare esempi icastici). Il codice fondamentale del liberalismo non dice, infatti, che ognuno può fare tutto quello che vuole - che è anarchia, cioè violenza di pochi ai danni di molti - ma che "se ognuno limita un poco l'ampiezza delle proprie libertà, cioè i diritti, tutti avranno tutte le libertà". Che è un'invenzione semplice ma geniale di noi liberali. Un'invenzione che ha cambiato faccia al mondo occidentale e all'uomo. Si discute soltanto di quanto ogni libertà vada ridotta. I liberali classici dicono "il meno possibile", i liberali di sinistra dicono "abbastanza". Ad ogni modo, qualunque sia il costo giuridico e psicologico di questi limiti, sempre modesto, solo col liberalismo una società ha la somma massima di libertà possibili.

GRANDI PICCOLE AVVENTURE. Natura selvaggia a mezz'ora da Roma

Foto: Escursioni del Naturist Young Club (Lega Naturista): 1 .Da Gorga al Lontro (Monti Lepini), 2. Serra di Celano, 3. Passaggio del Gendarme sulla cresta del monte Viglio, 4. Da Castel Giuliano a Cerveteri.
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Wilderness, cioè la natura selvaggia. E' un'esigenza vitale per l'uomo di oggi. Per il suo equilibrio psico-fisico. Per star bene. Per divertirsi. Per fare quel famoso movimento preventivo dei "mali della società del benessere" di cui parlano epidemiologi, igienisti, cardiologi e oncologi, ma che nel chiuso d'una palestra diventa costrizione, eccesso di dannosi esercizi anaerobici, stress articolare, artificio, talvolta snobismo masochista.
E la natura selvaggia non va "guardata" sulle riviste di carta patinata, ma vissuta dal vero, con tutto il corpo, con tutti i sensi, almeno con una giornata di immersione totale ogni settimana. L'ideale, anzi, sarebbe l'intero weekend. Perché non è solo un esercizio meccanico di muscoli e tendini come quello che avviene in palestra. Ma è una novità sorprendente e interessante della nostra vita. Che ci fa apprendere aspetti e comportamenti nuovi, che ci cambia, ci migliora.
Un'escursione nella natura selvaggia è catartica, è come un lavaggio totale anti-stress. Per un giorno, tra l'altro, siamo costretti a misurarci con un ambiente bello e complesso che ha le sue regole. Tutti i problemi legati alla città spariscono: pensiamo solo a farcela, a non mettere il piede in fallo, ad arrivare alla meta.
E tutto questo a pochi minuti dalla città. Già a mezz'ora di auto, per esempio, i romani hanno la fortuna di trovare ampie zone naturali del tutto selvagge, dove è possibile perdersi se non si è esperti o se si va senza una guida.
A Roma la wilderness dietro l'angolo, l'escursionismo sportivo (hiking, dicono gli anglosassoni) per tutti, che unisce l'osservazione della natura allo sport in ambiente selvaggio e montano, lo abbiamo inventato noi della Lega Naturista nei lontani anni Settanta (1975). Prima di noi c'era solo il Club Alpino (Cai), ovviamente, che a Roma non è mai stato un granché. Ma i "caini" avevano e in gran parte hanno ancora poca attenzione per boschi, ruscelli, animali e piante, tutti presi come sono per le vette. E avevano (e in parte conservano) un non so che di militaresco che infastidisce, forse solo per il fatto di essere numerosi, non omogenei, riuniti con una "leva" casuale e non selettiva, e perciò lenti e privi di fantasia.
Negli ultimi anni, poi, si è assistito ad una omologazione degli itinerari e dei modi di praticare questo sport. Basta scorrere i programmi dei tanti club sorti sull’onda della moda, si va sempre negli stessi posti e sempre nello stesso modo.
Col risultato che le cime più popolari sono spesso super-affollate. Sul Gran Sasso si possono contare, a parte le cordate degli alpinisti, anche dieci e più gruppi di escursionisti contemporaneamente. In secondo luogo si va solo su quelle autostrade della montagna che sono mulattiere e sentieri, talora molto erosi, pieni di pietre o fango. Infine si spingono anche i semplici curiosi, le persone meno allenate, fisicamente meno adatte, o più anziane, ad avventurarsi in montagna. Magari con l’assicurazione – specie sulle Alpi - che c’è una via "ferrata", vera e propria scaletta di metallo, più o meno arrugginita, a facilitare le cose e a rendere facile e banale qualunque vetta. Con esiti scontati e paradossali. Sicuri del sentiero, della corda fissa o della ferrata, gli escursionisti allentano i controlli, e spesso si distraggono. Con esiti ben noti al soccorso alpino. In Italia si contano ogni anno oltre trecento incidenti gravi in montagna. Che visto il piccolo numero di frequentatori è una cifra molto alta.
Per contrastare questa tendenza, già dal 1981 la Lega Naturista (il primo gruppo ecologista a Roma), impostò un programma di escursioni del tutto "naturali", fondato sui seguenti principi:
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1. Natura vera, la più selvaggia e meno frequentata possibile, compatibilmente con le possibilità dell’escursionista medio. Quindi, oltre ai sentieri, quando sono inevitabili, anche tratti di fuori sentiero, risalita selvaggia di torrenti e fossi, camminate o arrampicate libere, pietraie, pratoni ecc. Questo approccio, praticato con prudenza, permette anche di imparare a dosare le proprie possibilità, di controllare legamenti e muscoli, di essere sempre attenti per risolvere i piccoli problemi che si pongono di volta in volta (e così per paradosso si riduce molto il rischio di incidenti), di aggiungere un pizzico di avventura e imprevedibilità anche alla gita a venti chilometri da Roma.
2. Uso tradizionale della gambe (sempre) e delle braccia (di rado), evitando sentieri banali, corde fisse e ferrate, impianti di risalita, ma anche vette deturpate da antenne ecc. Sconsigliato ogni mezzo artificiale (p.es, gli inutili, antiestetici, fastidiosi o pericolosi bastoncini, che aumentano insicurezza e creano dipendenza psicologica disabituando all’uso delle mani e delle gambe).
3. Attrezzatura semplice e tradizionale (cuoio, cotone e lana, piuttosto che plastica e fibre sintetiche)
4. Colori mimetici (sabbia, bruno-verde), anziché rosso e giallo, per non deturpare visivamente il paesaggio ed essere meno visibili agli animali che si vogliono osservare.
5. Lasciare la natura così come la si è trovata. Quindi niente scatolette vuote o carta di caramelle o di alluminio o cicche di sigarette, o anche vistose bucce d’arancio (non le mangia nessun animale e si degradano lentamente, anche dopo settimane), che sono i lasciti usuali degli escursionisti di massa. Ma neanche buttar giù sassi dai sentieri, con la scusa che "danno fastidio", o spostare massi o pietre (sul mnte Viglio c’è sempre qualcuno che si diverte a comporre lettere di messaggi con le pietre del pianoro di vetta)
6. Portare nella natura e in montagna solo le persone adatte per fisico, allenamento, mentalità e rispetto dell’ambiente.
7. Insegnare ai giovani partecipanti l’attenzione non solo per l’aspetto sportivo, ma anche per quello naturalistico, salutistico e giocoso (piante, animali, rocce, tipo del terreno, microclima, eventuali cibi spontanei d’emergenza ecc), compresi i bagni estivi nei ruscelli e laghetti, quelli invernali nelle acque termali, l’arrampicarsi sugli alberi ecc
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CHI SIAMO? Diretta filiazione dalla Lega Naturista, la comitiva del Naturist Young Club ne ha raccolto l'esperienza e tutti i criteri sopra elencati. Le sue escursioni sono improntate ad un rapporto naturale e semplice con la montagna e la natura spontanea. Le escursioni del Naturist Young Club si distinguono da quelle degli altri club per alcune caratteristiche singolari:
Le escursioni sono scelte ogni domenica o giorno festivo nel Lazio o nell’Abruzzo tra i luoghi più "belli" o interessanti dal punto di vista naturalistico ed estetico-paesaggistico, oppure poco o per nulla contaminati o frequentati dai soliti gruppi. Si tiene conto anche del clima e delle previsioni meteo
Tra gli itinerari possibili alla mèta si preferiscono quelli più naturali, cioè meno antropizzati e artificiali. Sono perciò frequenti i fuori sentiero. Insomma, nulla ferma il gruppo: si cammina liberamente per praterie, altopiani, pendici, foreste, ruscelli, fossati, creste, pietraie ecc.
Per prevenire gli incidenti e poiché la guida insegna anche i fondamenti dell’escursionismo sportivo e del naturismo (vita sana e naturale, igiene naturale ecc) ci si indirizza ad un pubblico giovane o giovanile.
La comitiva essendo attenta all’igiene e alla vita sana, è naturale che si rivolga ai non fumatori (anche per…avere più fiato). Sono bene accetti anche i vegetariani e gli amici degli animali.
Comitiva stabile, o quasi, anziché turn-over continuo di partecipanti, come avviene in genere a Roma La guida, in certi casi responsabile per legge, preferisce conoscere vizi e virtù "muscolari, articolari e cardiache" dei partecipanti abituali. E’ accertato che disavventure e incidenti sono spesso causati da persone che partecipano una volta tanto o semplici curiosi.
Nei limiti del possibile si danno anche spiegazioni e consulenza gratuita su flora, fauna, vita sana, fitness, cure naturali e alimentazione naturale.
La riduzione al minimo dei rischi, sempre presenti in uno sport come quello escursionistico, è un obiettivo prioritario. I costi da dividere sono molto bassi. Si dividono le spese vive (auto private ecc) e i costi organizzativi della guida (questi ultimi pari a euro 30 all’anno per 48 gite garantite), con ricevuta alla prima gita. Si partecipa solo su prenotazione Prenotazione entro venerdi, conferma telefonica il sabato.

LIVELLO. L’alpinismo è escluso. Può capitare, però, di usare le mani in brevi tratti facili. Le escursioni sono di grado medio e medio-elevato, e quindi adatte alla stragrande maggioranza dei giovani e delle persone giovanili.. Possono essere, però, prolungate. Sono particolarmente indicati tutti i giovani agili, anche poco allenati tendenzialmente sportivi, in ottima salute (generale e delle articolazioni). In caso di dubbio chiedere al medico l’attestato di idoneità per uno "sport aerobico non agonistico" consistente in lunghe camminate con zaino e con dislivelli di ogni grado, anche fuori sentiero, in ogni ambiente e tempo.
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STAGIONE: Settembre-Luglio. La comitiva garantisce almeno 48 escursioni all’anno. Il programma, modificabile secondo le previsioni meteo locali, comprende tutte le mete più belle e isolate o meno frequentate del Lazio, dell’Abruzzo e delle regioni vicine, dalla risalita di un ruscello alla vetta, dal bosco fitto all’altopiano. Non c’è solo montagna, ma anche colline poco esplorate, dune marine selvagge ecc.
Prenotazioni per e-mail nico_valerio@tiscali.it oppure al tel. 339.4375909

02 aprile 2006

RADICE DEL DIAVOLO. Vero e falso nel ginseng dai Gesuiti alla scienza

Non sapevo nulla di ginseng, la più costosa e rara radice dell'erboristeria. Però sono esperto di alimentazione e capace di studiare gli studi biologici originali sulle riviste scientifiche. Il che mi aveva permesso di rivelare in 10 libri, in centinaia di articoli, corsi e conferenze, gli altarini nascosti della pseudo-scienza, la disinformazione spacciata per divulgazione scientifica non solo da parte di "alternativi" esoterici, ma anche di medici, dietologi e nutrizionisti di Stato e Rai-Tv in camice bianco (da medico o salumiere? ci si potrebbe chiedere) e tanti, tanti giornalisti raccomandati incapaci. 
      Conoscendo tutto questo e apprezzandomi per il rigore critico, un editore mi propose di ristudiare ex novo la materia del ginseng, affrontandola in modo severo. Accettai ad una condizione: quella di avere sulla scrivania tutti gli studi scientifici recenti - "fino a oggi", dissi - oltre ai due-tre libri esistenti sull'argomento.
      Dopodiché mi misi a studiare il tutto, a tempo pieno, come ho sempre fatto per ogni mio libro: cioè 12-14 ore al giorno. In due mesi e mezzo, dal 3 gennaio al 15 marzo, lo studio era finito. Ed anche il libro. 
      E sapeste quello che avevo scoperto! Intanto, una storia incredibile, avventurosa, con risvolti paradossali, piena di colpi di scena. Per dirne una, i cinesi che non oggi, ma nel Settecento e Ottocento, comprano sottobanco ginseng in Canada e negli Stati Uniti, rivendendolo in patria al quadruplo perché "più pregiato". Salvo dire agli occidentali, con la tipica doppiezza dei commercianti vecchio stile, che "non è così buono come quello cinese". Poi i gesuiti che stranamente si interessano d'una pianta che allora si riteneva favorisse l'erezione. Non solo la scoprono e la propagandano, ma ne detengono per un po' il monopolio. Infine, i trucchi più sporchi della divulgazione e della ricerca biologica. Non scrittori di manuali, ma faziosi manovali della parola hanno copiato i precedenti errori, senza andare mai a verificarli scientificamente. E nei laboratori coreani e sovietici pseudo-ricercatori di Stato hanno truccato per decenni gli studi, obbligati dalle gerarchie burocratiche. Quando il comunismo "fa ricerca". E ancora ditte (capitalistiche) senza scrupoli che nelle preparazioni mettono ginseng di bassa qualità o di scarsa efficacia. Morale liberale e liberista: mai fidarsi non solo della ricerca comunista, ma neanche delle etichette o della pubblicità dei produttori capitalisti in assenza di una vera concorrenza e di consumatori agguerriti e informati. Per finire, migliaia di erboristi da quattro soldi che raccontano balle ai clienti per far soldi, essendo in realtà solo dei comuni negozianti. Spesso più ignoranti. Per dare un'idea dell'approccio usato nel manuale scientifico (informazione a livello universitario, ma linguaggio alla portata di tutti), riproduco la mia presentazione:

"Che cosa c’è di vero e fondato; che cosa di falso, inesatto o inattendibile, nella scienza del ginseng?Tra le piante officinali occupa oggi il posto predominante, sia per importanza economica sia per mole di lavori scientifici. Solo per questi due aspetti, e non per i vecchi luoghi comuni tuttora cari agli erboristi, la radice del ginseng è, davvero la "regina delle erbe". Ed è anche "la radice delle meraviglie", nel senso che riserva continue sorprese non soltanto ai consumatori ma anche agli "esperti", molti dei quali anziché studiosi neutrali sono in realtà sostenitori acritici, innamorati perdutamente dell’oggetto dei loro studi, oltretutto fermi a contenuti, proprietà e convinzioni degli anni Ottanta, che per il ginseng sono un’epoca lontana e prescientifica. 
      E invece, lo diciamo con orgoglio, le sorprese che vengono dalle nuovissime ricerche scientifiche condotte negli ultimi anni in laboratori di biologia sperimentale, biochimica, farmacologia, tossicologia, epidemiologia e in minor misura in clinica medica, mentre rappresentano una rivoluzione nella scienza del ginseng, garantiscono la priorità e l’originalità del presente manuale. Un volume che testimonia un "boom scientifico", per così dire, ancora modesto se comparato alla sperimentazione dei farmaci di sintesi, ma eccezionale se lo confrontiamo con altre piante officinali, che di rado hanno gli onori della provetta e della capsula di Petri, e mai in ogni caso l’aureola di migliaia di studi pubblicati sulle riviste specialistiche, come ora sta accadendo a questa radice. 
      Certo, è una vittoria "di laboratorio", basata su esperimenti con animali trattati ad alte dosi per brevi periodi (spesso somministrando solo i presunti "principi attivi"), che ripropone l'annoso problema della ricerca sperimentale; se cioè i dati ottenuti negli esperimenti su modelli animali siano o no applicabili anche all’uomo, la cui biologia com’è noto è diversa e la cui tipica assunzione è piuttosto quella di piccole dosi per lunghi periodi. La risposta della scienza è già nota: quegli studi non sono riferibili sempre, né nella totalità dei casi, agli umani.
      Tuttavia, per la prima volta il presente manuale collaziona criticamente con precisione di tipo universitario i primi successi (e qualche insuccesso) ottenuti in studi più attendibili di quelli di vent’anni fa, a cui si erano ispirati gli autori dei vecchi manuali. Oggi finalmente gli studi sul ginseng sono condotti con metodi più razionali e su un numero elevato di soggetti, e sono anche sufficientemente controllati per evitare aspettative psicologiche e casualità statistiche. In passato non era mai accaduto. Questi nuovi dati consentono ora di rispondere a domande che fino a pochi anni fa sarebbero state imbarazzanti. Qual è il fondamento scientifico dell’uso preventivo e terapeutico della radice? E quali sono i modi d’azione farmacologica che potrebbero legittimare le sue varie attività biologiche, insomma la sua efficacia? 
      Il manuale risponde per la prima volta minuziosamente e con una ricca casistica di centinaia di studi recenti, tutti riferiti, a questi due quesiti essenziali. Cosa che finora nessuno degli altri libri sul ginseng aveva mai potuto fare compiutamente. Il vaglio della ricerca sperimentale, branca scientifica della medicina moderna (che, se ne fosse priva, sarebbe ancor oggi la magica e aleatoria "arte del guarire" degli sciamani), si era reso indispensabile per una medicina popolare immutata da millenni. I limiti e i rischi erano nell'inesattezza o genericità di indicazioni terapeutiche e dosaggi, nelle superate definizioni di sindromi e sintomi, e nelle stesse affascinanti costruzioni di una fantasia filosofica tipica di dottrine prescientifiche in cui il corpo era collegato allo "spirito", secondo i miti di una primitiva "cosmogonia" o nascita del mondo, come accadeva anche in Occidente fino al Medio Evo. 
      Cadono, così, vecchie convinzioni e moderne leggende metropolitane, e il ginseng affrancato dal retaggio del primo e più lungo periodo della sua storia, quello della magia, diventa oggi un rimedio del tutto nuovo e moderno. Si sta anche attenuando il condizionamento della ricerca orientale da parte dei monopoli di Stato che nello stesso tempo producono ginseng e finanziano convegni e ricerche sul ginseng, a mano a mano che quei regimi (Corea, Cina e Russia) si fanno meno autoritari e diventa più frequente il ricorso alle banche di dati internazionali, alle reti informatiche e agli scambi con gli studiosi occidentali. Pur tuttavia, i lettori vedranno quali ombre e sospetti oscurino ancor oggi le ricerche condotte in Oriente. Ed è una stridente contraddizione che la radice da secoli ritenuta la "medicina dello spirito", apportatrice della "suprema libertà" per l’uomo, sia diventata il simbolo della mancanza di libertà, sia dei ricercatori che della gente comune, nei paesi orientali. Ma quali sono tra le centinaia di novità e curiosità quelle più rilevanti dal punto di vista scientifico? Almeno due: il ridimensionamento dei ginsenosidi, le saponine terpeniche ritenute finora gli unici e indiscutibili principi attivi del ginseng, e la scoperta nella radice di numerosi nuovi composti sinergici, decine di potenti sostanze antiossidanti, per lo più fenoliche, che hanno mostrato impensate proprietà farmacologiche. 
      Ne deriva un’inattesa estensione dell’area di applicazione terapeutica della radice. Insomma, una vera e propria rivoluzione nel contenuto e nelle indicazioni del ginseng. Altro che semplice adattamento allo stress e potenziamento del rendimento mentale e fisico, le uniche indicazioni note fino a poco tempo fa. Questa radice oggi mira più in alto, come si vede nell’ampio e fondamentale Capitolo sesto del volume, che presenta i migliori e più attendibili studi di farmacologia e clinica medica, e nel paragrafo dedicato ai meccanismi d’azione. Il ginseng oggi vuol dire la sua anche sulla prevenzione e cura di molti altri disturbi e malattie della civiltà moderna, quali l’invecchiamento precoce, la trombosi, il diabete, l’ulcera, l’alcolismo, le tossicomanie, le insufficienze immunitarie, le malattie infettive, le cardiopatie, i tumori. Saranno confermati questi studi? E basteranno queste generiche e troppo universali indicazioni a legittimare l’uso continuato d’una radice pur sempre costosa? E come reagirà il mercato a questo "nuovo" ginseng? 
      La prima conseguenza della rivalutazione del ginseng da parte della scienza è psicologica e culturale. L’antica "radice dei Re" si sta facendo accettare dal largo pubblico come il rimedio erboristico più attuale e up to date. Una mera testimonianza di etnomedicina si trasforma in un ausilio terapeutico reale, preventivo e curativo, alla stregua dei medicinali "da banco" venduti in farmacia senza ricetta medica. E il ginseng diventa addirittura un "integratore" alla moda. I bar d’America e d’Europa, da Los Angeles a Ibiza, da Rio a Ios, offrono bottiglie o lattine di bevande "tonificanti", capsule, compresse, sciroppi di frutta, tè, matè e perfino gomme da masticare (tutti a base di ginseng), ai giovani e ai meno giovani che affrontano lavori o sport intensi, trascorrono svegli la notte o si scatenano per ore in discoteca. 
      Il rimedio per eccellenza allo stress e alla nevrosi quotidiana sembra godere del trionfo della notorietà tra minoranze sempre più ampie che dello stress e della nevrosi fanno uno stile di vita. I suoi tempi lunghi d’azione, del tutto naturali, non spaventano gli entusiasti ma frettolosi neofiti, spesso tacitati con l’aggiunta alla formulazione di prodotti naturali ricchi di caffeina, come il guaranà. E così, favorito dalla pubblicità e dal "passaparola" quotidiano, si consuma l’ultimo paradosso della radice delle meraviglie."Bastone della vecchiaia" dei saggi cinesi, riscoperto e prescritto da gerontologi, endocrinologi e psichiatri alle prese con i problemi dell’età matura, rinasce oggi –in tempi di nicchie di mercato– sotto forma di stimolante giovanile "naturally correct" da ostentare tra gli amici come una sorta di anti-droga "sana e naturale" capace di riportare senza rischi al sogno dell’uomo primigenio: la mitica panacea.

. Prefazione-presentazione di Nico Valerio, autore del volume "Ginseng" (ed. 2000)

01 aprile 2006

JAZZ. Arriva il vecchio pianista hard-bop, e nessuno lo sa

Tra tante notizie inutili, centinaia di spettacolini penosi pompati ogni giorno da giornali, tv e web (magari solo per far piacere a questo o a quello), la notizia che il celebre pianista dell’hard bop, l’ormai anziano Barry Harris, avrebbe tenuto un workshop di quattro giorni all’Università La Sapienza di Roma, non l’ha data nessuno. E, cosa più grave, solo pochissimi sapevano che avrebbe suonato in jam session nell’Aula Magna. Così, alla simpatica riunione hanno partecipato un centinaio di persone, per lo più ragazzi dell’Università e gente dell’ambiente jazzistico, che lo avevano saputo col vecchio ma efficace sistema del passaparola. Evviva l’èra della comunicazione. Barry Harris, che ha infilato tra i temi perfino Anema e core, era accompagnato dal bassista Alex Milosevic e dal batterista Max Dall’Omo e, come ospiti, dal sassofonista tenore americano Steve Grossman (da ricordare il suo impetuoso assolo in April in Paris) e dall’ottuagenario metà santone - capelli lunghi e lunga barba bianca - e metà Zorro nerovestito che è il clarinettista Tony Scott, che ormai vive a Roma da anni. Scott si è prodotto oltre che al clarinetto anche in un divertente vocalizzo "scat" in duetto col pianoforte. D'accordo, un ottantacinquenne vitale come lui, anche se incerto sulle gambe, ci tiene a far sapere che ha ancora del fiato, ma qualcuno dovrà dirgli di non abusare dell' "urlo della tigre", verso a cui ormai da anni si è ridotto il suo fraseggio, che non fa che mettere in imbarazzo i colleghi e il pubblico più esperto. Sul registro basso, invece, è ancora ascoltabile, a tratti, considerata l'età eccezionale. In quanto ad Harris, è soprattutto un grande didatta e organizzatore di lezioni, seminari e workshop, come li chiamano negli Stati Uniti. Interessante ed eclettico pianista dell’hard-bop (il suo primo disco è del 1960), certo avrebbe meritato maggior fama. Curiosa nella sua vita la parentesi del "beneficiato dalla mecenate invaghita". Fu quando venne ospitato a lungo, insieme a Thelonious Monk, nella villa dell’eccentrica baronessa Pannonica ("Nica") de Koeningswarter, fan del jazz e dei musicisti be-bop. Ma oggi, pur continuando ad insegnare, Barry Harris, che ha ormai 77 anni, suona solo di tanto in tanto in concerto, con quel suo tocco lieve, quel suo fraseggio nervoso e sintetico, tipico dei grandi pianisti. Perciò, l’occasione dell’Aula Magna dell’Università è stata una piacevole sorpresa.
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Foto: 1. Copertina di un disco del 1960, 2. Barry Harris prima del comcerto all'Aula Magna della Sapienza con Tony Scott (foto Maurizio Bonsignori), 3. Barry Harris, Tony Scott e Steve Grossman (foto Maurizio Bonsignori).