27 aprile 2007

AUTO D’EPOCA. L’Itala torna in Cina cent’anni dopo, senza Barzini

Che c’entra l’ACI, il carrozzone parastatale dell’Automobile Club? Oggi la "traversata del centenario" avrebbe meritato di organizzarla l’ASI, l’associazione delle auto storiche, benemerita per aver favorito la tutela, il restauro e la rimessa su strada di tanti gioielli a quattro o a due ruote che, se fosse dipeso da Stato e Comuni d’Italia, a forza di tasse e divieti di circolazione, oggi sarebbero abbandonati agli sfasciacarrozze.
Ma così è andata. I più attivi sono sempre i meno adatti: è una nuova "legge di Peeters". L’ASI si è lasciata scippare la riedizione della leggendaria gara "Pechino-Parigi" del 1907, che vide trionfare con un vantaggio di tre settimane sui concorrenti l'Itala di Scipione Borghese e il giornalista Luigi Barzini. Quest’ultimo trasmise le corrispondenze in esclusiva a Daily Telegraph e Corriere della Sera. Anche allora esisteva la figura dello "sponsor" occulto.
L’Itala 35-45 HP, di ben 7400 cc di cilindrata, percorse dal giugno all’agosto 1907 le strade sassose, fangose e dissestate da Pechino a Parigi. Il 20 luglio prossimo, 100 anni dopo quell’epica vittoria della tecnologia e intraprendenza italiana (altri tempi, altri uomini, e la lira faceva aggio sull'oro), la medesima auto, perfettamente restaurata e messa a punto come nuova, ripeterà l'impresa al contrario, da Parigi a Pechino.
La fotografia parla da sé: macchina robusta, non c’è che dire. Di fattura quasi militare: una specie di SUV di quei tempi. L'auto ricondizionata - che invidia per chi possiede auto antiche rabberciate alla meglio, di fatto solo "viaggianti" - è stata presentata oggi alla stampa alla casina Valadier, a Roma..
E, nonostante che nel frattempo le strade siano quasi tutte asfaltate e siano più numerosi i distributori di benzina (e l'Itala beve…), siamo proprio curiosi di vedere in quante settiimane e in quali condizioni arriverà a Pechino. Anche perché dovrebbe traversare le zone calde del terrorismo islamico e della guerriglia. Chissà se Al Qaeda non la vede come uno strumento di penetrazione del Grande Satana occidentale. Ammesso che i cinesi non la trafughino per smontarla pezzo a pezzo e riprodurla con la loro arma letale: il tornio copiatore.
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JAZZ. "Come eravamo 2". Eccomi, dopo il filmato sotto l'articolo precedente (v. per i particolari), sempre a Umbria Jazz 1976. Sono visibile sul palco del concerto del gruppo di Cedar Walton a Umbria Jazz. Il filmato musicale è la continuazione del precedente: "Naima, part 2" (mi si può vedere alla fine, 3’14-3’26 e 3’50-4’05, dietro batterista e sax).

25 aprile 2007

NUDI IN CITTA’. La purezza del corpo contro i maniaci vestiti dell’intelletto

Donna nuda a Fontana di Trevi Basta, quando la misura è colma, è colma. Non se ne può davvero più. Così deve aver pensato la turista milanese quarantenne che pochi giorni fa, in una mattina molto calda, insopportabilmente calda - e come darle torto - attratta dai magnifici giochi d'acqua della Fontana di Trevi, a Roma, si è completamente spogliata.

E, ne siamo sicuri, si sarà goduta la brezza frizzante sul viso, poi gli spruzzi sul viso e sul corpo, prima di mettersi a nuotare, nuda. Decisione sensata, anche logisticamente, in una delle poche fontane romane dove è possibile nuotare. In stile libero, liberissimo, va da sé.

Che avrà pensato in quei momenti? Be', decisioni del genere tanto più appaiono rapide come guizzi veloci del corpo, quanto più tumultuosamente e a lungo hanno agitato l'animo nei minuti, nelle ore, nei giorni precedenti.

Del resto, la bella milanese era troppo attenta a schivare le pesanti monete da un euro che i turisti giapponesi e americani gettavano all'indietro nella grande vasca, per preoccuparsi davvero degli sguardi ebeti o delle urla dei ragazzi che la incitavano e applaudivano.

Incitare chi, applaudire che cosa? Avrebbero "potuto" farlo anche loro? E se avessero potuto, avrebbero "voluto" farlo? No, ma delegavano altri alla bisogna: la corporeità. Ma sì, gli "specialisti", le donne-sandwich dello streaking, i kamikaze del corpo umano. Mentre loro, l'amabile teppaglia cittadina, restavano nel loro limbo ottuso e disumano di intelletto senza corpo, doppiamente ottuso perciò.

Ma sì, basta. E’ nudismo o non è nudismo? Forse no, perché manca l’organizzazione, la partecipazione collettiva, la parafrasi di una contro-società. Ma ha molto in comune, anzi del nudismo c’è il germe, la spinta psicologica. Anche se nel nudismo non c’è o non dovrebbe esserci il sospetto dell’esibizionismo.

Fatto sta che il movimento liberatorio di quelli che si denudano in città, delle donne e degli uomini che all'improvviso (è qualcosa che scatta dentro, come una molla, diceva Pirandello delle trasformazioni solo apparentemente impreviste) capiscono che un gesto forte, risolutivo, s'impone. E' un'urgenza ultimativa, imperativa, quasi dolorosa. E in questi casi, si sa, non c'è parola che tenga. La parola è al corpo: l'unica è spogliarsi del tutto. Urlare il nuovo tornando alla nascita.

Hanno voglia di blaterare quei noiosi rivoluzionari ideologisti. La massima infrazione possibile della norma non è un manifesto. Ma non è neanche la parola, per quanti Sgarbi, Zeri, D'Agostino o Pannella riusciamo ad immaginare. Ma il corpo.

Nudista a San Francisco Mi fanno ridere gli artisti della body art o dell'arte comportamentale. L'arte suprema è un atto corporeo, un gesto totale: il denudarsi. L'antico, antichissimo, che si fa moderno, futurismo, anzi avanguardia. Insieme ribellione e affermazione dell'io, lotta e godimento supremo, passione e gioco.

E sì, perché una ragazza nuda traversa la strada, come accade non di rado in Germania o Danimarca, o entra con la sua faccia anonima in un supermercato o in un negozio qualunque, e immediatamente l'infrazione della norma azzera distanze psicologiche e antiche rimozioni. C'è chi ride, per esorcizzare il pathos ("No, non è vero, è un gioco"), ma i più sono seri, serissimi. Hanno capito, finalmente.

La rivoluzione vera è tornare bambini, come Natura ci ha fatto. E spogliandoci si dice la verità, tutta la verità. E nel contrasto immediato coi tanti vestiti si è davvero i soli ingenui e casti, e puri. La Verità suprema contro il falso, l'ipocrisia del cattivo buon gusto, il consumismo del "mostra e nascondi". Tra l'altro, la donna milanese avrebbe potuto gettarsi vestita nella fontana, no, ha voluto spogliarsi, come in un sovrappiù di verità, la verità estrema.

Nude per protesta politica (Gazzetta R.Emilia 2005)Anche se in alcuni casi il nudo in città è servito con una complicazione in più: la massima indifferenza apparente, come di chi simula uno stato di normalità quotidiana, tipico per esempio nell’entrare in una bottega per acquisti. E’ l’esibizionismo non-violento della cosiddetta “public nudity”, fenomeno non raro nei Paesi anglosassoni, del resto ormai abituati alla nudità gioiosa e irriverente dello streaking goliardico (stadi di football, ma perfino aule di università o sedi politiche). A San Francisco la nudità casuale in strada è diventata da anni una strana “regola”, sebbene sia inficiata dall’esibizionismo, il che la rende analoga allo streaking e contrapposta al vero nudismo, e sia alimentata – obiettano gli oppositori, tra cui il sindaco che fa di tutto per reprimerla – dalla protesta della locale comunità gay.

Ma se il nudo, che altro non è se non la faccia di tutti noi, noi veri, fa ancora choc, tanto da poter essere utilizzato come provocazione e protesta, è un segno forte, sì, ma un brutto, un bruttissimo segno. Beati i tempi, avvenire, in cui nessuno più noterà, come accadeva un tempo, una donna o un uomo nudi nel centro d'una città. Allora sì che saremo insieme moderni e antichi, cioè felici.

IMMAGINI. 1. Una donna milanese che si spoglia nella fontana di Trevi, a Roma (2007). 2. Ragazza nuda che con la massima indifferenza, simulando uno stato di normalità quotidiana, entra per acquisti in un normale negozio degli Stati Uniti (“public nudity”). 3. Nudo selvaggio per le strade di San Francisco (USA). 4. Nudo di protesta politica a Reggio Emilia (2005).

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FOTO. Quella ragazza israeliana, da sola contro tanti poliziotti

Il fotografo Oded Balilty che era lì davanti non ha creduto al proprio obiettivo, ma ha avuto la prontezza di spirito di scattare lo stesso. Ha fatto bene, perché con questa foto (v. a lato) ha vinto l'ambitissimo Premio Pulitzer per il foto reportage. Un'immagine che da sola vale un articolo di fondo, e più d'un commento.
Certo, la fotografia, come la cronaca, può trarre in inganno, dare un'interpretazione parziale, perché "piatta", della realtà. Tanto per dirne una, manca il fattore tempo. Non sappiamo quanto - minuti, secondi? - la combattiva ragazza israeliana, la sedicenne Nili, abbia resistito davanti al plotone di poliziotti armati fino ai denti della sicurezza israeliana che accorrono (saranno una trentina?) per stroncare le ultime resistenze dei coloni che, d'ordine dal primo ministro Olmert, si sono visti distruggere da un giorno all'altro le loro case.
Israeliani contro istraeliani, ebrei contro ebrei. Ma il dramma d'un popolo, d'un grande popolo, è anche qui, in un premier che "deve", costi quel che costi, ordinare lo sgombero degli insediamenti abusivi per dare all'esterno un gesto pacificatore, di buona volontà, e i coloni, rappresentati plasticamente dalla giovane ragazza ultrà (e anche...forzuta), che "deve", assolutamente deve, opporsi alla distruzione, ancora una volta, della propria storia, del proprio passato.
Certo, la foto è illusione, ma se è per questo è illusione anche la realtà, a dar retta ai filosofi, presocratici e non solo. Ed è tale la sproporzione delle forze che si contrappongono nella foto che bisogna sospettare una miracolosa inversione di vuoti e di pieni. Davvero, come ha sostenuto poi Nili in un'intervista, sembra che dietro il debole plotone armato ci sia solo un'uomo, il Primo Ministro, e dietro la forte ragazza ci sia tutto il popolo israeliano
Politicamente Neli avrà pure torto, ma fotograficamente ha ragione da vendere.

15 aprile 2007

PALINDROMI. Dall’inizio o dalla fine? Strano, ma il significato è lo stesso.

L'enigmistica ha un fascino antico e insolito che colpisce. Specialmente rebus, sciarade e anagrammi piacciono a chi, come me, è attento alle parole e appassionato di ogni esercizio, abilità o gioco che abbia a che fare con le parole.
      Tempo fa composi una poesia-ritratto della scrittrice Grazia Lago i cui versi, tutti concatenati tra loro con un filo logico, erano però stati originati da alcuni anagrammi casuali del suo nome. In tempi, si badi, in cui non esistevano i computer, che oggi hanno addirittura programmi appositi che forniscono centinaia di anagrammi, peraltro spesso deludenti o insignificanti.
      Ricordo che quel nome non mi portava gran ché: ottenevo, col puro esercizio mentale, per prove ed errori, solo anagrammi balzani o senza senso. Finché mi venne una folgorazione che mi permise di dare un certo senso al tutto: decisi che l'incastro potesse essere così acrobatico da prevedere che un anagramma valicasse il limite del verso, occupandone magari due. Così anagrammi senza senso acquistavano qualche significato. Ma era davvero una "scrittura automatica" dettata dal caso, che io cercavo in qualche modo di regolare. Il curioso (e inquietante, secondo l'amica scrittrice, che crede a questo genere di coincidenze misteriose ed esoteriche) è che in una poesia così casuale il ritratto che ne è scaturito ha pienamente soddisfatto la Lago, che ritiene i versi generati dagli anagrammi veritieri e addirittura dei vaticini... Bah, io non credo a queste cose, ovviamente, e più sensatamente parlo di coincidenze inquietanti, suggestioni, casualità, emotività esasperata. Anche se sono ossessionato dalle inquietanti coincidenze.
      Da adolescente mi esercitavo sulla "Settimana Enigmistica", che a me sembrava la più seria pubblicazione periodica del settore, anche se troppo spazio vi è concesso alle parole crociate facili, a giochini e passatempi banali. Ma, anche limitandosi alle parole crociate senza schema, ai rebus, alle sciarade e agli anagrammi, cioè alla parte più nobilmente enigmistica, il settimanale il suo ruolo d'intelligente stimolatore dell'intuito verbale e spaziale lo svolge egregiamente.
      Ma la "Settimana Enigmistica" mi deluse da adulto, invece, quando volendo collaborare con mie composizioni, e volendo passare da lettore ad autore, ottenni un rifiuto malamente motivato ("Abbiamo delle ferree regole metriche"). Ancor oggi, a distanza di anni, visto il livello elementare delle composizioni che leggo, ritengo più che pubblicabili quegli indovinelli e sciarade, rimandatemi indietro perché - incredibile a dirsi - nascondevano, come mi scrisse il direttore, "qualche piccolo errore di metrica". Ho un buon senso del ritmo musicale e avevo fatto di tutto perché ad orecchio le sillabe dei versi fossero ben bilanciate. Ma non immaginavo che i redattori della “Settimana Enigmistica" fossero convinti di fare... poesia. E poesia anche provincialotta e retrò, con tanto di rime baciate o alternate. Giudicate voi se le mie prime composizioni enigmistiche erano o no all'altezza delle tante, alcune mediocri e banali, che si leggono sulla "Settimana".
      Oggi sono stato colpito navigando su internet da un aspetto poco noto dell'enigmistica: le parole e le frasi palindrome, sottospecie particolare delle bifronti, che cioè conservano le medesime lettere e nel medesimo ordine sia leggendole dall'inizio, sia dalla fine. Anche Roma è bifronte, cioè si può leggere al contrario, ma così ha un altro significato: Amor. Le parole e le frasi palindrome invece sono "a specchio", vale a dire hanno la medesima sequenza da una parte e dall'altra. La cosa impressionava molto gli Antichi.
sator      Tra le più famose frasi palindrome dell’Antichità romana è spessissimo ricordata la misteriosa SATOR AREPO TENET OPERA ROTAS, letteralmente: “Il seminatore Arepone guida con fatica le ruote [del suo aratro]”, frase secondo me senza senso, del tutto casuale (certo, se accettiamo che uno si possa o si potesse chiamare Arepone… allora ogni gioco di parole è possibile), ma in cui migliaia di cultori di enigmistica e scienze occulte del passato si sono sforzati di cogliere molti significati misteriosi, sedotti dal modo schematico e razionale in cui le lettere sono disposte in quadrato: quello bidirezionale. Ogni parola della tavola divisa in 25 quadri è palindroma, cioè ha un significato anche letta al contrario. Ebbene gli Antichi, saranno stati dei semplicioni, però vedevano in questa piccola raccolta di casualità chissà che di magico o miracoloso o ingegnoso. 
      In quanto alle singole parole, poi, quelle di per sé palindrome sono numerose, specie in italiano, lingua vocalica per eccellenza: oro, afa, ara, inni, ossesso, anilina, ottetto, Anna, radar, aia, ingegni, onorarono, ama ecc.
      Per le intere frasi palindrome, invece, bisogna che il significato sia evidente, in modo corretto, senza salti logici o trucchi. Invece noto che molte sono tirate per i capelli e scorrette o dei non-sense, e quindi andrebbero squalificate: i palindromi veri, geniali, sono quelli chiari, evidenti, di buon italiano. Ave Eva, Anima di damìna, Amo Roma, Etna gigante, Attici di città, E’ nome di dèmone. Frasi palindrome perfette.
      Sul sito Polymath, curato da matematici estroversi del Politecnico di Torino, un intero settore è dedicato ai palindromi, con esempi di tutti i tipi, da quelli basati solo sulle parole singole alle frasi intere, dalla pittura (ma sì, il Narciso che si specchia nell’acqua d’uno stagno non è forse un palindromo?) alla musica e al cinema. Da queste pagine e da altre fonti traggo un florilegio di frasi palindrome, alcune davvero non-sense e umoristiche:

Amo Roma
Ai lati d’Italia
A Roma si disamora
Etna gigante
Avida diva
Eco, vana voce
Attici di città
Era pacifica, pare
I brevi diverbi
A me dai diadema
I tre sedili deserti
Eran i mesi di seminare
A ritroso sortirà
Occorre portar aratro per Rocco
O mordo tua nuora, o aro un autodromo
I topi non avevano nipoti
Essa t’evita le relative tasse
E’ mala sorte, ti carbonizziamo braci, tetro salame
Accavalla denari, tirane dalla vacca 
Eran i modi di dominare
Ora dieci lire per i licei darò
E con lievi viti vive il noce
E’ ritrosa a sortire
Erano, sai, sei a Iesi a sonare
Occorre pepe per Rocco
Allor a fette farolla
Annodai mia donna
E ci darà la radice
Adenoidi: Dio ne dà
Anima di damina
E’ nome di demone
Parlo col rap
M’ami, o imam? 
Ave, Eva

      In inglese, se non sbaglio, i palindromi non devono essere né facili né frequenti. Registro intanto questi due facili:
Madam, I'm Adam [Signora, sono Adamo]
Race car [Gara di automobili]

      In francese:
Esope reste ici et se repose [Esopo resta qui e si riposa]
Un drôle de lord nu [Un buffo Lord nudo]
      Vogliamo provare, cari amici, a creare (cercare) nuove parole o frasi palindrome?

AGGIORNATO L'11 SETTEMBRE 2016

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13 aprile 2007

ANTI-FOTO. Ignani: "E ora fotografo il dito che indica la luna…"

Devo dire la verità: ieri sera, all’inaugurazione della mostra al "Bacco e Daguerre" (come dire "vino e fotografia) la sorpresa è stata grande. Dino Ignani come fotografo lo ricordavo, per uno scherzo della mia memoria selettiva, molto "naturalistico", anzi attaccato testardamente, ossessivamente, a certi minuti particolari da osservatore scientifico del 700, come le variazioni sulle contorte venature degli ulivi millennari della Sardegna, regione che lui ama, o le agavi appuntite e spinose, oppure disincantato osservatore di varia umanità, per lo più con una curiosa tendenza all’eccentrico e al diverso. Ma anche con i suoi paesaggi stralunati e le fotografie di reportage dal taglio sociale o antropologico con i suoi tipi umani, donne, soprattutto, ma anche vecchi scolpiti nel legno, starei per dire. E sì, perché Dino Ignani fotografa a colori, ma come tutti i veri artisti "pensa" in bianco e nero.
Tutto, però, mi potevo aspettare tranne che un’intera sua esposizione dedicata ad una provocazione sottile e inquietante: l’arte che riprende se stessa mentre viene osservata.
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Inutile citare Duchamp o Breton, oppure l’intera schiera di surrealisti, avanguardisti, o i vari fotografi teorici dell’anti-fotografia. Qui direi che Ignani gioca finalmente sulla scommessa intellettuale del conflitto "foto-nonfoto" parteggiando allegramente per la seconda opzione, e relegando la fotografia al momento servile, ironico, della fruizione dell’opera, per di più altrui.
Instancabile frequentatore di mostre fotografiche, l’autore ha ripreso senza farsi notare gli osservatori nel loro osservare, quindi messi a nudo, insomma il pubblico a tu per tu con l’Opera. E ha scoperto così i veri protagonisti. Spesso piccoli-piccoli davanti ad un’opera semanticamente grande-grande. Ma qualche volta, all’opposto - ecco la sorpresa nella sorpresa - grandi-grandi davanti ad un’opera piccola-piccola, cioè di gran lunga più interessanti fotograficamente dell’oggetto stesso che stanno osservando. E nell’incertezza, nell’ambiguità dei due piani visivi sovrapposti in prospettiva si gioca la dialettica iconoclastica di Ignani, la sua cattiveria creativa, segno di intelligenza. Demistificazione e ironia in cui sguazza con apparente grande godimento. Di fronte a tanti mediocri "laudatores" di banalità, insomma, gente che fotografa la luna, Ignani capovolgendo e portando dalla sua parte il noto aforisma, fotografa "il dito che indica la luna".
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Visti al vernissage, il critico Diego Mormorio, la giornalista culturale Linda De Sanctis (che hanno firmato le note di presentazione di sala), la storica d’arte contemporanea Rossana Buono dell'Università di Roma 2, l'organizzatrice di cultura Noa Bonetti, fotografi, attrici, registi, pittori e amici. Dal 12 al 26 aprile (fino all'una di notte), "Vernissages" di Dino Ignani, al Bacco & Daguerre, via N. Ricciotti 6 (piazza Mazzini), Roma

TRA TE’ E SE’. Quattro caffè e sei Sgarbi, un tè verde e sei Ceronetti

Sono stato uno dei primi in Italia a sorbirmelo (è davvero il caso di dire), il tè verde. Vent’anni prima che diventasse di moda perfino tra le lettrici di Donna Moderna (sempre up-to-date, loro) o, manca poco, Famiglia Cristiana.
Sono teista, ma non nel senso cui alludeva Voltaire. Credo di non poter vivere senza il piccolo rito metronomico del tè.
In questo la penso come un altro vegetariano incazzato, lo scrittore biblista Guido Ceronetti, lingua tagliente, altro onesto perfido. Già: perfido perché onesto. Peccato solo che il delirio dei suoi furori - dai pensierini finto-ingenui sulla Stampa ai suoi libri - richiami l’Apocalisse. "Così imparano", sembra pensare, gli "altri", gli odiati "molti". Neanch’io amo le masse, ma sono per i godimenti del Paradiso Terrestre. Ecco perché ho scelto una modella nuda che beve il tè come illustrazione. Lui, invece, è un angelo vendicatore. In questo, il coltissimo celebre appassionato di marionette è ancora un proto-cristiano, un esseno. A metà strada tra S. Francesco e Beppe Grillo. Ma col lucido e tortuoso arzigogolo alla Pannella.
Ebbene, ‘sto Ceronetti, Grande Snob della Palingenesi, Capopopolo della Resurrezione dei corpi, il Savonarola che trasforma i corrotti in politicamente corretti, è forse tipo da bere quattro caffè di fila, e in piedi, alla Sgarbi? Nooo. Lui usa il tè da meditazione, come altri bevono vini davanti al caminetto sprecando tempo a parlare di annate e cru. E infatti nel libro "Pensieri del tè" fa l’elogio del tè verde.
Ma sarà per la "catechinata" caffeina del tè verde, che dura più a lungo nel sangue del Catechista spretato che catechizza tutto e tutti; sarà perché le sue oneste perfidie sono capite benissimo dagli altri teisti incalliti bevitori di tè verde, fatto sta che "Pensieri del tè" è uno dei libri più leggeri, belli e cattivi che abbia letto. E si sa che in Italia, Paese di falsi e ipocriti cattolici che recitano in modo untuoso la parte dei Buoni, i veri Buoni come Ceronetti alla fin fine sembrano cattivi.
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Però ha ragione Ceronetti: il tè verde porta lontano, aggrega pensieri, fa divagare. E dire che mi ero messo a scrivere due righe per rispondere alla domanda di Maria Cristina: "Qual'è il tè verde migliore? Ho visto che ce ne sono di vari tipi... Oppure uno vale l'altro?" A forza di bere tè verde, invece, mi sono perso in accostamenti, ritratti e ricordi... Effetti dei "pensieri del tè", appunto, come dice Ceronetti.
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Al contrario di certi naturisti rimasti ottocenteschi, perché poco scientifici, che rifuggono dal caffè come da una droga (ma tutto è droga, hanno dimostrato i ricercatori, perfino il pane e il latte), io un buon caffè - rigorosamente senza zucchero per gustarne il vero sapore, come si deve sempre fare con tutti gli infusi - posso anche berlo, magari fuori casa. Ma la mia bevanda preferita, dopo l’acqua, è il tè.
Credo di aver provato quasi tutti i tipi di tè importati in Italia e Inghilterra. In certi momenti, anzi, mi sono piaciuti molto perfino il tè affumicato Lapsang Suchong, abbandonato a malincuore per le pressioni del Nico ultra-razionale (affumicatura=cancerogenicità), sia il delicato oolong cinese, sia il fortissimo, quasi in polvere, tè nero dei carovanieri arabi del deserto, che fa un infuso così scuro che una volta l’ho usato per tingere una maglietta. Anche i tè oolong e neri hanno delle qualità, e molti studi scientifici provano il loro potere antiossidante. Ma non possono competere col tè verde. Che purtroppo come gusto è il peggiore. Checché ne dica il grande Ceronetti.
In Italia, che io sappia, esistono solo 3 tipi (salvo piccole eventuali importazioni locali):
1. tè verde della Cina, nelle caratteristiche scatole cubiche di cartone leggero color verde scuro;
2. tè verde in scatole di latta, importato (da dove?) dalla inglese Twining e ribattezzato in etichetta "Gunpowder", in cui le foglie di tè sono state appallottolate in forma più regolare e sferica.
3. tè verde del Giappone, in buste piatte di cellophan trasparenti. Così costoso che una mia fidanzata giapponese, con tutto il nazionalismo dei giapponesi, usava sempre l'economico cinese (oggi 250 g a 2.50 euro).
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Differenze? Uso o ho usato sia il Twining, sia il cinese esportato dall’azienda di Stato. Credo che caffeina (3%) e catechine (ben il 30% in peso) siano assolutamente analoghe in entrambi i tipi. Il tè verde non è come il tè nero, che può essere fermentato in mille modi diversi. E' la semplice foglia naturale di tè essiccata senza fermentazione. C'è poco da fare, quindi, per caratterizzarlo. Ha le medesime caratteristiche della foglia fresca.
A voler essere pignoli, ci sono sicuramente differenze di qualità (zone diverse del raccolto, prime foglie, seconde foglie, foglie raccolte prima o dopo, foglie più grandi o più piccole ecc) o merceologica. In India, Ceylon, Indionesia, Cina e Giappone ci sono tè verdi diversi a seconda della zona climatica, del periodo in cui sono stati raccolti. La categoria migliore in Cina, per esempio, è l’AAA. Dicono che in Europa arrivi solo la qualità A. Secondo le voci, la qualità AAA, rarissima, se la sorbiscono i vecchioni della gerontocrazia del Partito Comunista cinese, e come omaggio alcuni sovrani (Elisabetta d’Inghilterra) e capi di Stato esteri. Negli Stati Uniti, vista la grande richiesta del mercato interno (là non è come in Italia: la moda segue da vicino la scienza), importano le qualità migliori. Anche se - consoliamoci - è così abbondante l’epigallocatechina anche nel più comune dei tè verdi che aspettarsi qualcosa di più, farmacologicamente, è da fanatici. Certo, potrebbero esserci anche delle sfumature di gusto, questo sì, il che per un tè organoletticamente mediocre come il tè verde non è secondario.
Ma anche tra i pochi tipi importati in Italia ho notato qualche minima differenza. Avendo meno sminuzzamenti, il tè verde a pallottole grosse (Twining) fa nella tazza un tè più pulito e quasi senza residui per chi come me si ostina a non usare il colino, che ovviamente ho, di vimini, non di metallo, perché rovina il sapore del tè (pochi cents nei negozi esotici).
Divertiti, Maria Cristina, a provarli tutti e due. E vediamo se trovi qualche differenza almeno nel gusto. Ho letto centinaia di studi sul tè verde, ma non ho mai letto - o forse non ricordo - di serie differenze di contenuto e di attività tra tè verde giapponese e cinese. Anche se i nazionalisti ricercatori del Giappone mettono perfino nei titoli "japanese green tea".
Comunque, a differenza di Ceronetti, lingua e olfatto vorrebbero Lapsang Suchong o Orange Pekoe o Darjeeling o Assam. Uso il tè verde solo perché sono razionale. Due tazze al giorno rigorosamente senza zucchero: di più non mi farebbe dormire, diversamente dal caffè. L'infusione - ho scoperto in uno studio scientifico - deve durare esattamente 3 minuti in una teiera già caldissima a cui è stata aggiunta l'acqua bollente necessaria ad una classica tazza da tè. La mia dose è un cucchiaino da tè poco più che raso per tazza. Chi prende 2 tazze deve mettere 2 cucchiaini di tè verde (una cosa che consiglio solo al mattino dopo la colazione.
Ma, suggestioni e mito a parte, il suo sapore ricorda l'acqua di cottura della bieta, un pò diluita. Niente a che vedere con certi tipi di tè nero (che poi è la stessa foglia molto fermentata) o di pregiato tè oolong (fermentato a metà, quindi tra verde e nero), ma anche con certi caffè di gusto e infusi di erbe. A parte il sapore in sé, che è sempre possibile correggere con erbe aromatiche (timo, salvia, rosmarino o santoreggia, piuttosto che il gelsomino dei ristoranti cinesi di Londra), il panegirico che gli fa Ceronetti in "Pensieri del tè" è giustificato dalla tenue ma costante attenzione che il tè verde sembra stimolare in chi scrive o medita pensieri. Insomma, sarà per la "caffeina catechizzata", Ceronetti sembra attribuire al tè verde l'impressione d'una percezione più acuta.
Anch'io ho avuto in alcuni momenti impressioni del genere. E' anche vero, però, che non basta bere a profusione tazze di té verde per diventare saggi e distillare aforismi ben riusciti sul genere umano, come il vegetariano moralista dell'Apocalisse. Come non bastano quattro caffè bevuti uno dietro l'altro e in piedi per fare lo Sgarbi, così ci vuol altro che una tazza di tè verde per diventare un Ceronetti. Per fortuna..

11 aprile 2007

GENI IN CUCINA. La pizza alla Catone e i tre panettoni della notte del single.

Che rapporto abbiamo con la cucina pratica, noi che siamo esperti o ci interessiamo di alimentazione? D'accordo, una persona per essere completa deve saper far tutto. E deve anche avere manualità. Gli psicologi hanno assodato che l'abilità manuale contribuisce talvolta all'intelligenza più di quanto faccia il districarsi tra i concetti - sempre quelli - imparati a memoria. Ne sono convinto da sempre. Senza neanche arrivare agli artisti, un bravo calzolaio per sopravvivere col proprio lavoro deve essere sicuramente più intelligente d'un politico medio o d'un mediocre avvocato, che magari ha ereditato lo studio dal padre.

Ma ci vuole esercizio, questo è il punto. E molti di noi si adagiano pigramente su una divisione del lavoro poco dignitosa per tutti: i pochi bravi fanno lavori manuali, cioè artigianali o artistici, i molti mediocri e senza creatività si rifugiano nel lavoro intellettuale. E' un rischio-certezza per molti di noi.

Cerchiamo di reagire, perciò, a questa stolta divisione del lavoro. Per esempio, signori intellettuali, sapete fare il pane, o la pizza napoletana? E' come chiedere se sapete dipingere. Sembra facile o difficile, a seconda del rapporto che abbiamo con la tecnica, ma anche con l'idea del bello, con la forma, e soprattutto con gli impasti (di farina o colori). Io ripeto sempre che se erano capaci di farla i rozzi pastori - senza pomodori e mozzarella, ovviamente, ma come semplice piadina fatta cuocere sulla pietra arroventata (cfr. il poemetto "Moretum" col rustico personaggio Symilus) - vuol dire che la focaccia bassa atavica che noi oggi abusivamente chiamiamo "pizza napoletana" è facile, davvero facile da fare.

Certo, ci vuole quel minimo di manualità con gli impasti da pane che gli Antichi avevano, e che si è tramandata fino a noi, per fortuna. Ma oggi, diciamolo, in città e in campagna, chi fa più il pane in casa? Neanche le nostre madri. E perfino le nostre nonne e bisnonne lo facevano solo nelle emergenze, o perché non avevano il forno in casa o perché in paese non esisteva il panettiere. Lo stesso accadeva nella Roma antica

Chi lo fa, sa che il pane viene benino a partire dalla terza o quarta volta che lo si fa. A poco a poco, si imparano i trucchi e i segreti. E alla fine, memorizzati i "gesti" giusti, le mani corrono e fanno tutto da sé. 20 minuti per fare il pane, 20 minuti per la pizza. E se la farina è una buona integrale, sono 20 minuti ben spesi. Sempre meno che vestirsi, uscire, prendere l'auto o il bus o andare a piedi alla più vicina bottega di alimentazione naturale per comperare del buon pane. E sì, perché il comune pane "integrale" delle panetterie in Italia è orribile, leggerissimo e pieno di additivi: si vede subito che è fatto di normale farina 0 con i consueti "facilitatori" chimici e l'aggiunta di un po' di crusca.

Al Corso di Alimentazione Naturale e Terapie con gli Alimenti, che non verteva certo sulla cucina, ho accennato anche al pane integrale fatto con il "lievito naturale" o "pasta madre". Ma, ho aggiunto, con la stessa pasta da pane si può realizzare qualsiasi pizza o focaccia bassa da forno. E per evitare le solite pizze semicrude e indigeste che si fanno nelle pizzerie (5-10 min. di cottura: bruciacchiate sotto e ai bordi, semicrude all'interno, il che vuol dire 4 ore di digestione...), è meglio lievitare la pasta e far cuocere la pizza nel forno di casa a 220-240° per 20-30 minuti.

Anni fa, mi feci regalare da una bottega di "interni" un marmittone da pavimento 30 per 30 cm. di ottimo gres refrattario al calore, e lo uso nel forno a gas come base per pane o pizza. Cerco di riprodurre almeno in parte le condizioni che pane e pizza trovano nel tradizionale forno a legna fatto di mattoni. Il mattone a differenza del metallo conserva e ripartisce bene ovunque il calore evitando che pane e pizza si brucino sotto restando semicrudi sopra.

Ma il problema della focaccia bassa lievitata è il tempo. Anche usando il normale lievito di birra, ci vuole sempre un'ora e più. E con la farina integrale anche 90 min. Perciò in totale, se si è bravi e tutto va bene, 20+60+30. Un totale di quasi 2 ore è davvero tanto per una pizza bassa, sia pure dello spessore d'una focaccia lievitata. Qualche donna di città, perciò, ha inventato il sistema di non aspettare l'intera ora di lievitazione, ma di mettere in teglia e infornare dopo un quarto d'ora. "Tanto poi - dice - il calore violento del forno compie in modo affrettato la lievitazione". Il che è vero solo in parte. Comunque è un'alternativa per guadagnare un po' di tempo.

Ora una delle varie Marie Cristine del Corso appena concluso ha provato a fare la pizza napoletana seguendo senza volerlo la ricetta austera di Symilo e di Catone, che nel De re rustica vedeva molto di mal occhio il pane lievitato, sorta di debolezza "moderna" di vecchi cittadini infiacchiti e senza denti, e provilegiava il semplice panis depisticius, cioè semplicemente impastato. E grazie tante! Ne sarà venuta fuori - a vedere le due foto inviate da Cristina - una specie di galletta dura, inutilmente cosparsa ma non ammorbidita da pomodori e verdure, anzi ancor più rinsecchita dalla cottura al forno. Dimenticato il lievito? Coraggio, Cristina, come il pane anche la focaccia bassa viene bene solo a partire dalla 3.a o 4.a volta. Inutile tentare la velocità dei pizzaioli, che in mezz'ora servono decine di clienti: loro usano trucchi e misture di farinaccia e “facilitatori” irriferibili alle tue caste orecchie. Prova almeno a far lievitare per metà fuori e per metà dentro il forno... durante la stessa cottura.

D'altra parte non sono certo un cuoco professionale, pur avendo creatività in cucina ed essendo bravino e fantasioso ad improvvisare senza ricette (“ricette? puah!”), come del resto siamo soliti fare tutti noi maschi che “ce la tiriamo” e con le femmine pazienti ci atteggiamo a “geni dell’improvvisazione in cucina” per essere applaudi a cena. Ma la donna, si sa, vuole certezze, i piedi per terra. Noi cerchiamo l’avventura, anche dove non dovrebbe esserci… In cucina la ricetta esatta e fedele è femmina, l’improvvisazione creativa o caotica è maschio….

Per consolare Cristina ricordo una notte di tregenda di tanti anni fa interamente passata accanto al forno, che non ne voleva sapere di cuocere contemporaneamente tre panettoni integrali di Natale. Tre panettoni? Già, come era potuto accadere che un single arrivasse a preparare ben tre grossi panettoni? Eh, cari amici, con ‘sta storia della “improvvisazione creativa”, neanche fossi Picasso davanti alla tela, metti acqua, aggiungi latte (che nella ricetta originale non c’è), aggiungi olio – altro che burro, credetemi: viene fuori un sapore più corposo e scuro, che unito a miele, zucchero muscovado e zenzero, fa meraviglie – fui costretto ad aumentare di molto la farina integrale per compensare i troppi liquidi. E nella grande zuppiera l'impasto cresceva, cresceva. Ma senza ancora essere lievitato…

Al momento di metterlo nelle forme vidi (ed erano ormai le 2 di notte) che altro che un “panettoncino”: ce n'era per tre grossi panettoni. Dramma. Sapevo bene che il piccolo e malconcio forno casalingo d'allora più d'un panettone non cuoceva, e pure quello a malapena. Che fare? Misi il fuoco al massimo e mi presi un libro da leggere. La cottura fu lenta e avventurosa. Ma alle 5 del mattino avevo davanti ai miei occhi stralunati tre stupendi panettoni di Natale. Che per di più nei successivi quindici giorni mi dovetti mangiare tutti io, in barba alla dieta!

Nella speranza che lo spirito di Catone il Censore non si vendichi ancora una volta di certi frettolosi e inadeguati Romani moderni.
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IMMAGINI. 1. In alto una napoletana classica come si deve, un po' lievitata, rialzata ai bordi, di spessore giustamente irregolare. Quando la si prepara con buona farina integrale è una delizia. Ma va ben cotta (quella delle normali pizzerie è spesso semicruda). 2. Al centro un "esperimento" di focaccia di farina integrale tipo "galletta", non lievitata, come si vede meglio (3) dalla compattezza della pasta - oltretutto rullata col mattarello! - e dallo spessore del taglio. 4. In basso il tipico panettone di Milano protagonista dell'avventurosa notte del single. Vuole lievito acido a "pasta madre" (8-12 ore di lievitazione) e triplice lievitazione.

AGGIORNATO IL 31 OTTOBRE 2014