25 maggio 2008

ROMANZI. L’apollinea Ippolita Avalli o della calma inquietudine delle donne.

Davvero scrittrice eccellente, la Avalli. Le ho sempre invidiato la naturalezza dei dialoghi, che io non ho mai saputo inventare con spontaneità, perfino quando da giovane scrivevo per i giornali e perciò ogni tanto dovevo, anche con qualche fastidio, intervistare. Già, «perché inventare domande acute a chicchessia quando sai già le risposte migliori, e le sai scrivere molto, ma molto meglio?», ironizzavo sul mio ego individualistico. Un mio terribile amico toscano, critico, diceva che questo femminile imprinting del dialogo e della verbalità, risaputo dai nostri avi che lo temevano (“che la piasa, che la tasa, che la staga in casa”) e confermato dalla scienza neurologica, viene dal fatto che isolate nelle capanne mentre gli uomini erano a caccia o alla guerra, le donne cianciavano tutto il dì tra loro, sviluppando quella porzione di corteccia; mentre noi in silenzio uccidevamo bestie e uomini.
      Certo, quanto molti scrittori siano deludenti o artificiosi nel colloquio diretto, loro che nella barzelletta sui Carabinieri sarebbero quelli che scrivono, non quelli che parlano, è cosa nota a noi perfezionisti della scrittura, al punto da correggere i propri blog di dieci anni fa.
      La Avalli, invece, notavo che passava sempre indenne (per quel po’ che ho letto di lei; anche se è vero che in fondo “si scrive sempre la stessa opera”) lo strettissimo Stretto di Gibilterra della mia prevenzione e diffidenza anti-romanzo, specialmente se dialogato.
      E poi dell’Avalli ammiravo l'abilità con cui vi fa entrare nella storia, mentre in tanti altri scrittori si sente il filtro della scrittura, l’artificio falsissimo della retorica del romanziere!
      La Avalli riesce ad esprimere le inquietudini del mondo delle donne piacendo alle donne, ma con una strana obiettività e starei per dire quasi neutralità, razionalità, a cui non è estraneo il gusto dell’estetica (ordine e armonia delle forme), insomma in una dimensione più apollinea delle colleghe scrittrici femministe; cosicché piace anche agli uomini. Al contrario di un'altra mia amica, Barbara Alberti, che sembra invece, per eccesso di partecipazione, passione e compassione femminista, faziosamente, oserei dire con spirito più dionisiaco, voler piacere solo alle donne.
      Sia chiaro, lei non ne sa nulla, né io sono tipo per carattere, ideologia e deontologia severa, come ex-critico, di fare la minima pubblicità a comando e per chi secondo me non vale; perciò vi dò un consiglio: leggete tutto quello che trovate della Avalli, anche i primi romanzi.

Sul suo romanzo "Mi manchi" scrissi qui un curioso articolo non-recensione

Come evento teatrale, la presentazione del romanzo* di Ippolita Avalli alla libreria Feltrinelli di Galleria Colonna, a Roma, ha funzionato, eccome. Il pubblico attorno a me era molto, troppo partecipe. Tanto che mi sentivo un ignobile infiltrato, perfino imbarazzato per le ondate successive di emotività che seguivano le letture dell’attrice Valentina Carnelutti. In fondo, è quello che ogni autore vorrebbe.
      Ero entrato proponendomi severamente di essere algido, neutrale, impersonale verso la Avalli, per la quale fin dal primo istante avevo sempre provato una grande, istintiva simpatia, poca per un amante, troppa per un recensore. Ma ora quei sussulti e silenzi improvvisi, quegli sbandamenti di teste che si aprivano nell'applauso liberatorio, là, dietro due colonne sghembe pensate ad arte da un architetto sadico appositamente perché io e molti altri un secolo dopo nell'ipogeo della libreria Feltrinelli non potessimo vedere Ippolita neanche torcendo il collo, erano tutti da godere, ed esigevano, eccome, partecipazione, altro che neutralità.
      Mai fruizione fu più acrobatica. La mia vista faceva curve intelligenti, slalom eleganti e, com’è come non è, arrivava a lei lo stesso, dietro le due colonne, in "modalità periscopio", neanche avessi avuto due cavi di fibra di vetro collegati agli occhi. Finché qualche defezione urinaria – sebbene pochi fossero i prostatici e molte, troppe, le cistitiche ("che vor dì er passato femminista" dell'autrice) – finì per liberare qualche posto permettendomi di guadagnare molte file e di poter finalmente guardare in faccia le tre donne della scena. Tre donne, devo dire, ben condotte dalla regia. C'era sempre la dialettica del "mai troppo": non appena la giovane esaltata e brava attrice esagerava con un'interpretazione che coinvolgeva il colon, ecco che la critica bonne-femme con la sua verve involontaria riportava ad unità la norma infranta, in un bilanciamento perfetto tra piccolo humour e piccolo pathos. Neu nimis, mai troppo. Perfetto.
      E non so se l’autrice se n’è accorta, come autrice e regista dietro il tavolo (grossa responsabilità, ma anch'io ho sempre voluto mettermi in gioco nelle presentazioni dei miei libri), ma quel pubblico femminile presente in sala era tutto da vedere, uno spettacolo nello spettacolo. Ma da dietro, non davanti dove sedevano le relatrici. Viste da dietro, quando le chiome scendevano era perché i menti si alzavano e le pupille probabilmente si dilatavano. Alla Vera del romanzo che dopo una vita di peripezie nel movimento delle donne, nei "collettivi", nel self-help dell'aborto, càpita a Londra a cercare il figlio perduto, stava accadendo qualcosa che loro conoscevano bene, anzi che avevano conosciuto in un passato lontano, e che nel ricordo le emozionava, forse le feriva ancora.
      Era una platea smaccatamente parziale, è chiaro. Qualunque fosse la dialettica interna del romanzo, ancora tutto da leggere, avevano deciso comunque di stare dalla parte di Vera, donna fragile e forte, e forte proprio perché dichiaratamente fragile. Anzi ognuna di quelle donne "era" Vera. Così vera che, se così è, il libro è un libro che farà sentire le donne più donne.
      E quando la ressa attorno al tavolo della scrittrice era ormai insuperabile, uscendo dalla Feltrinelli per precipitarmi in ritardo all'Eur, al Museo Pigorini ("Johar", i murales naturalistici delle donne dell'India), la parzialità delle "tue donne", ripensandoci, tornava a confondermi e a inquietarmi. Mi riportava alla mia natura inesorabilmente maschile, chiusa ai misteri eterni dell'ambiguo rapporto tra madre e figlio, che noi per vendetta virile abbiamo denominato "di Edipo" e non "di Giocasta", come sarebbe stato più logico. Insomma, da un mito all'altro, nell'ineffabile, insondabile, inarrivabile. Ma era tardi, e dovevo arrivare. Perciò chiesi un biglietto per l'Eur.

*Mi manchi, di Ippolita Avalli, è la storia di una donna, Vera, che cercando senza indizi in una brulicante Londra il figlio perduto, finisce per ritrovare più che il figlio, se stessa. L'emozione violenta la riporta a vent'anni prima, all'uomo con cui ha concepito Gabriele, che ora nel dramma della ricerca affannosa riscopre. Comincia così una corsa per colmare un vuoto mai riempito che mette Vera davanti alla propria identità vera di donna e di madre. Tutto il suo passato torna a galla. E i ricordi, mai indolori, servono a capire finalmente chi è davvero oggi.

IMMAGINE. La scrittrice Ippolita Avalli (foto Rino Bianchi, particolare)

JAZZ. Billie Holiday in Good Morning Hearthache, una canzone che avrebbe dovuto secondo le intenzioni del produttore commerciale essere leggera e consolatoria, tanto che l'arrangiamento prevede anche un sezione di violini, ma che si trasforma grazie alle inflessioni, al fraseggio e al timbro caratteristici di Lady Day , e ritrova quello spessore, quella dignità che si voleva negare.

AGGIORNATO IL 7 DICEMBRE 2018

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18 maggio 2008

VEGGIE PRIDE. Come non va fatto un corteo vegetariano e nonviolento

CONTESTAZIONE, MA CONTRO CHI?
"Orgoglio vegetariano"? Dopo aver aderito per tempo, ieri pomeriggio alle 14.30 sono andato a vedere e partecipare. Dopotutto, mi sono detto, sono o no il vegetariano di più lunga data a Roma?*
Bene, a piazza Madonna di Loreto, sono l’unico accanto ai tre sparuti banchetti veg davanti alla colonna di Traiano. Eppure la partenza è al metro di Colosseo, a soli 500 metri. Che sta accadendo? Forse il Veggie Pride ha fatto flop? Non è arrivato nessuno? Dopo un’ora di attesa, spazientito risalgo via dei Fori Imperiali per vedere che è successo. E che cosa vedo! Sullo sfondo della via chiusa al traffico e presidiata dalla polizia, sei grandi minacciosi cellulari grigio-verde (della capienza di 20 fermati ognuno) della Polizia, con le inferriate anti-sommossa ai finestrini, marciano a velocità da funerale alla testa d’un minaccioso e "pesante" corteo contestativo, con grandi striscioni e bandiere, aperto da una prima fila di poliziotti molto duri e compatti, però senza casco e scudo. I manifestanti non si vedono proprio da chi viene incontro: solo torpedoni e uomini della Polizia. Uno choc. Aiuto.
Incredibile: mi sembra di colpo di tornare all’incubo dei terribili anni 70. Ma poi mi rassereno: deve essere un altro corteo. Sì, non c’entra niente con i vegetariani. Figùrati quella è gente soft, tante ragazze giovani e mingherline, neanche vengono alle escursioni in montagna per quanto sono delicatine e temono la fatica! Ma sì, tutto si spiega - penso - ecco le ragioni del ritardo del Veggie Pride: proprio alla stessa ora - guarda coincidenza - c’è uno di quei provocatori cortei "del sabato" dell’ultra-sinistra. La polizia ha bloccato i vegetariani e ha dato la precedenza all’altro corteo, quello del… che so, Partito Comunista d’Italia marxista-leninista, Terza Internazionale, Nuovo Potere Operaio, Ri-Lotta Continua? Insomma, cose così, uscite dalla naftalina degli armadi della cronaca, più che della Storia. Ma sì, speriamo solo che passino presto, voglio vedere e partecipare all’altro corteo, quello dei mangiatori d’insalata, frutta e legumi, degli inermi difensori degli animali.
Ma fatti pochi passi vedo tutto. Si tratta proprio del corteo aggressivo dei non-violenti vegetariani. Aggressivo solo nel tono e nell'aspetto frontale (callulari e Polizia). Striscioni e cartelli non cominciano colla parola "vegetarismo", ma con "Guerra" (alla carne), "Lotta" (all’uccisione degli animali), e deunciano descrivendole nei particolari ogni tipo di violenza e tortura perpetrata ai danni degli animali che la gente mangia ogni giorno senza rendersi conto. Gli slogan urlati col megafono a 100 decibel incollato alle labbra d'una ragazza minuta dalla voce stridula (che pare abituata ai cortei) sembra presa da un album ingiallito degli anni 70: "Opponiamoci alla criminale strage dei macelli!", "Basta carne, no alle multinazionali del cibo". E i compagni in coro: "Basta carne", "Basta carne", "Basta carne".
Ma chi è che ci costringe a mangiar carne, insomma contro chi è la contestazione? Contro il "Governo ladro" o la "porca società"? Contro i "padroni" o le "multinazionali"? O contro la mamma italica che ci vuole far mangiare carne a tutti i costi, perché si ricorda che al paesello la nonna era povera e non la mangiava mai, e ha "sentito dire in tv" dal solito nutrizionista trombone in camice bianco da salumiere che "la carne è essenziale"?
Come vegetariano liberale mi irrita questo "basta" urlato agli altri, e non a se stessi. E' quello un modo intelligente di convincere i passanti, di fare propaganda? A chi è rivolto, allo Stato, che dovrebbe impedire, o ai macellai che dovremmo far chiudere d’autorità? Attendiamo forse il Grande Dittatore vegetariano, uno Stalin, un Mussolini, anzi un Ceausescu, che si sentiva un nutrizionista e affamando il popolo dava la "linea", sì, ma quella dietetica? Di queste incongruenze non si accorge nessuno dei 200-250 presenti.
Sono allibito, arrabbiato, affronto amici e sconosciuti che marciano in quel modo, una pantomima grottesca dell’ultra-sinistra d'un tempo, senza rendersi conto dell’impatto comunicativo e psicologico che il corteo ha sui passanti. Che infatti si tengono a debita distanza: chi si avvicinerebbe ad un corteo aperto da grossi cellulari e un plotone di poliziotti? Altro che vegetariani e non-violenti: diamo all’esterno, sulla cittadinanza e i turisti una vergognosa immagine militarista e violenta. E i turisti neanche capiscono: nessun cartello comincia con la parola "Vegetarismo". Immaginano dalle foto sanguinose e dagli slogan che si tratti d'un corteo di Animal Liberation o Peta.
Il logo ufficiale è una mucca col "pugno" chiuso. Gli animali strumentalizzati come kompagni rivoluzionari. Non è una piccola violenza (ideologica) anche questa? Nel sito gli anonimi organizzatori hanno espressamente vietato bandiere dei club vegetariani e slogan salutistici e scientifico-razionali in appoggio al vegetarismo. Bisognava - esortavano - battere sulla violenza contro gli animali. Più che giusto, ma il vegetarismo in quanto tale? Lo vogliamo descrivere, lo vogliamo pubblicizzare, possibilmente senza far andare per traverso il cibo? Vogliamo, oltre a far vedere il sangue sui cartelli, la violenza dei mattatoi, l'ipocrisia dei consumatori, aggiungere la pacata argomentazione che mangiare carne è inutile, dannoso economicamente, eticamente e sul piano della salute?
Incontro l’architetto Massimo, ex consigliere del PC cossuttiano al Comune di Roma, dichiaratamente vegan della frazione "anticapitalistica e anti-multinazionali". Avrà idee non scientifiche e ottocentesche ma almeno lo conosco: ha il coraggio di esporsi con nome e cognome. E' da ingenui illudersi che il vegetarismo (come l'ambientalismo) possa essere una nuova battaglia anticapitalistica sotto altro nome. Il capitalismo, lo dico da vegetariano liberale, non ci impone di mangiar carne, "non gliene può fregare di meno". Non pochi manager - mica scemi - sono diventati veg. Certo, il capitalismo va regolato con poche regole ma ferree, e chi non le rispetta, come accade spesso in Italia, dovrebbe uscire dal mercato. E siamo noi il "mercato", non i produttori. Siamo noi consumatori a scegliere i beni da consumare e perfino a "fare i prezzi". Potremmo dall'oggi al domani, se fossimo in tanti e più esperti di merceologia, composizione di alimenti e nutrizione, avere in ogni supermercato tutta la gamma dei cibi adatti alla dieta vegetariana a minor prezzo e con migliore qualità. I produttori stanno alle nostre scelte: sono pronti a riciclarsi rapidamente. Se no, scompaiono dal mercato, falliscono.
Ma a via dei Fori Imperiali non penso all'economia: sono infuriato. Lancio giudizi sferzanti e provocatori ad alta voce sugli organizzatori che hanno voluto un corteo così apparentemente "minaccioso", che poi a sorpresa scoppia come una bolla di sapone 500 metri dopo, scherzando e ridendo, davanti alle bancarelle tra ragazze venute da Napoli e Milano, e tranquille famigliole della domenica. Ma allora era una "finta". I poliziotti quando hanno visto le bancarelle - sprovviste di cibo, purtroppo - devono essersi sentiti presi per i fondelli...
Ma chi sono gli organizzatori? Non si sa. Nessuno delle nostre organizzazioni li conosce. Già questo è un po' inquietante. Si sa che c’è un collegamento diretto col Veggie Pride di Parigi, che l'unico articolo vero lo hanno avuto da Liberazione e che il loro appello è apparso su Indymedia. Forse queste circostanze, oltre ad una loro inesperienza nella comunicazione, possono aver allarmato Questura e Digos - chissà, lavoriamo di fantasia - nel timore di qualche infiltrazione di gruppetti anarcoidi francesi o di ultras della sinistra italiana (tipo Centri Sociali), convincendoli a fornire una "assistenza" davvero imponente e insolita, che non si vedeva da anni in una manifestazione pacifica. Insomma, anche se gli organizzatori ora assicurano di essere solo militanti di base, e che non hanno niente a che fare né con Centri Sociali né con Indymedia (ne prendiamo atto, ma non è questo il punto: le idee non vanno mai criminalizzate), resta però la circostanza obiettiva, inquietante - me lo consentiranno - che le eccezionali cautele della Polizia siano state prese proprio in occasione d'un corteo vegetariano. Un motivo di vergogna, per noi vegetariani, s'intende.
Vabbè, è andata come è andata, faremo meglio in seguito.
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VEGGIE PRIDE 2009: CONVINCERE E SORRIDERE
Ad ogni modo, il Veggie Pride di Roma a chiunque sappia un pò di psicologia della comunicazione ha mostrato come non si deve assolutamente organizzare una manifestazione vegetariana. Non dobbiamo manifestare "distanza", "diversità" dagli altri colpevolizzandoli e criminalizzandoli. Così non verranno mai da noi, i nuovi vegetariani lo saranno solo in privato, e noi saremo sempre più soli. Ma semmai dobbiamo fare propaganda in modo intelligente, senza aggressività e senza mostrare sadicamente troppo sangue. Insomma, convincere col sorriso sulle labbra. E dobbiamo usare anche il tema della salute e della scienza. Perché la scienza ci dà ragione, finalmente. Del resto, anche l'uomo è un animale, e non possiamo non proteggere anche l'animale Uomo, altrimenti la gente giustamente diffiderà di "quei fanatici che amano gli animali, ma odiano gli uomini". (Che poi, detto tra di noi, e che i carnivori non se ne accorgano, era la sindrome maniacale del "vegetariano" Hitler, e di tante persone che conosco...).
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2009: UNA LUNGHISSIMA FILA INDIANA LUNGO I MARCIAPIEDI
Il Veggie Pride, non era nato per essere una festa? E festa deve essere. Propongo per il prossimo anno un lunghissimo corteo in fila indiana rigorosamente sui marciapiedi e senza megafoni, ma con canti, maschere, costumi, cartelli, colloqui con i passanti, sorrisi, spiegazioni convincenti e pacate (anche nutrizionali, dietetiche, mediche preventive), che parta da Villa Borghese e attraverso le strade e vicoli del Centro Storico si faccia notare in tutta Roma, toccando piazza di Spagna, piazza Navona, il Corso, piazza Venezia, e arrivando al Colosseo. E senza l'ombra d'un poliziotto: siamo liberi e pacifici cittadini che camminano sui marciapiedi e che non intralciano il traffico. Ebbene, credetemi amici veg, vengo dal giornalismo e vi assicuro che avremmo un impatto sui mezzi di comunicazione. Scommettiamo?
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(*) Il fraterno amico Edoardo Torricella, regista e attore (che è tra "I miei personaggi", v. colonnino accanto), per la verità sostiene di essere vegetariano da più tempo di me, che ho iniziato il 1 gennaio 1970. Ma la sua rivendicazione è vaga, generica, si perde in una nostalgica giovinezza. Invece, io ritengo che una decisione così importante debba lasciare sicuramente un’orma mnemonica. Conoscendo l’onestà dei vegetariani, mi basterebbe un riscontro, un episodio anche privato collegato alla decisione, insomma una data precisa, da parte sua. Che non arriva. Perciò, in mancanza di ricordi certi, prevale la mia memoria circostanziata e ricca di particolari, mi dispiace per Edoardo…:-)
Invece, l'amico Armando D’Elia, insegnante di scienze e positivista naturista, scomparso da tempo, che tutti ritengono un antesignano, non lo era affatto. Aderì alla mia Lega Naturista solo nell’81, e ne condivideva tutti i punti, dall’alimentazione naturale al risparmio e al nudismo. Insomma, era un naturista globale perfetto. Ma non era vegetariano fino – mi pare – a oltre 70 anni. Lo convinsi io a diventarlo, in vecchiaia, tra molti suoi tentennamenti e ricadute, e ad accettare l’incarico di presidente dei vegetariani di Roma. Poi, come sempre accade in un’Italia senza memoria, gli fu dedicato perfino un club vegetariano.
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JAZZ. Woody Shaw tromba a Cologne nel 1986 in un lungo, lento e raziocinante assolo tratta da "Ballad for Woody" (nel Quintetto con Johnny Griffin ts, JohnHicks p, Reggie Johnson b e Alvin Queen dr) 3.44

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09 maggio 2008

GENETICA. Ma davvero ormoni e geni ci dicono se e per chi votare?

Forse non vinceranno il famigerato premio Ig-Nobel che quegli eterni golardi degli scienziati anglosassoni hanno istituito per premiare le ricerche più improbabili, folli o umoristiche. Ma certo i più recenti studi genetici che tendono a dimostrare correlazioni tra geni, ormoni e comportamento politico lasciano pensare. E alimentano anche battute da bar. Divertentissima, conoscendo l’orientamento politico medio degli scienziati (per lo più di sinistra, in tutto in mondo, chissà perché: il dibattito è aperto), la battuta sarcastica del prof. Charney, della Duke University, con cui si conclude l’articolo di Marta Baiocchi su "Roma Cultura" di maggio, appena uscito sul web. (Nico Valerio)
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"Nella mole crescente di studi che cerca di indagare i meccanismi biologici della personalità, alcuni ricercatori sostengono di avere elementi che indicano che le convinzioni politiche degli individui sarebbero determinate geneticamente.
Secondo uno studio effettuato su 30.000 gemelli e pubblicato nel 2005 sulla rivista American Political Science Review, i gemelli identici hanno le stesse opinioni politiche più frequentemente rispetto ai gemelli non identici. Naturalmente, è normale che due gemelli crescano spesso sviluppando idee simili, visto che ricevono lo stesso tipo di influenza da parte dell’ambiente e della famiglia. Se però i gemelli identici hanno le stesse opinioni ancora più frequentemente, si può pensare che questo ulteriore aumento sia determinato da una componente genetica.
Altri gruppi tentano di identificare quali potrebbero essere i geni coinvolti nella posizione politica della gente. Secondo alcuni, un buon candidato potesse essere il MAOA (monoaminaossidasi A). Questo gene produce un mediatore che aiuta a regolare i livelli di serotonina, un neurotrasmettitore implicato, tra l’altro, nella fiducia e nell’interazione sociale. In effetti, questi ricercatori sostengono di aver trovato che le persone che hanno una versione del gene MAOA più efficiente vanno a votare 1.3 volte più spesso degli individui che hanno la versione del gene meno funzionante. La regolazione meno efficiente dei livelli di serotonina sarebbe quindi una delle cause dell’atteggiamento di sfiducia degli astensionisti.
Altri gruppi di scienziati, però, attaccano ferocemente questo tipo di studi, con diverse critiche: da un lato, si osserva che misurare le opinioni politiche della gente non è come misurarne la statura o il peso, e che i test eseguiti su questi parametri non sono affidabili.
Dall’altro, aggiungono, quando anche fosse veramente dimostrato che esiste una componente genetica nelle opinioni politiche della gente, è impossibile che dipenda da un gene solo: caratteristiche così complesse sono sempre determinate dal contributo di moltissimi geni, praticamente impossibili da rintracciare uno per uno, almeno con le tecniche odierne.
Altri dicono poi che il modo stesso di condurre questi studi è viziato alla base dal fatto che gli studiosi che li eseguono sono – come la maggior parte degli universitari americani e non – di sinistra. Tendono quindi, più o meno consapevolmente, ad influenzare i soggetti mentre li analizzano, oppure a elaborare i dati secondo le proprie aspettative. Che sarebbero quelle, dice il professor Charney della Duke University del Nord Carolina, di dimostrare che i conservatori sono gente dogmatica e amante della routine.
"Mi aspetto da un momento all’altro – ha dichiarato Charney – che questi ricercatori arrivino a dimostrare che esiste una correlazione tra l’avere opinioni conservatrici e avere genitali di dimensioni ridotte." (Marta Baiocchi).
Bibliografia: New Scientist, 2.2.08, p. 29
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JAZZ. Woody Shaw, grande improvvisatore, in un lungo
assolo alla tromba nel celebre in "Ow". La formazione aveva Johnny Griffin al sax tenore, John Hicks al pianoforte, Reggie Johnson al contrabbasso, Alvin Queen alla batteria. Durata: 6.38

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