26 giugno 2011

ETIMOLOGIE. Quello che non solo ti dà una fregatura, ma ti sodomizza pure.

Uomo di parole che camminaLe parole camminano. Se la storia del Mondo fosse solo la storia delle parole, staremmo freschi! I posteri non ci capirebbero niente. Un garbuglio inestricabile: discendenze assurde, analogie a sproposito, contraddizioni, assonanze, stereotipi, ambiguità, tautologie, legami senza capo né coda. Come il “gioco del telefono” dei bambini. Perché le parole più comuni non sono state inventate da razionali linguisti, ma create a poco a poco dal popolo ignorante e analfabeta, che non le leggeva, ma le sentiva pronunciare malamente e le ripeteva a modo suo come più o meno le aveva capite, spesso stravolgendole con gli accostamenti più strani, coloriti, improbabili. Quando non ci aggiungeva la malizia.
      La casseruola (pentola “più profonda del tegame, con lungo manico”, Gabrielli) fuori di Toscana era detta cazzarola (Frida, Tagliatelle alla bolognese, “l’ABC della cucina”, in La Cucina Italiana, 1937) da donne timorate che mai avrebbero detto “cazzo”, tanto che oggi è rimasta in Grecia come termine comune importato dalla marineria italiana. E le donne contadine o popolane cattoliche, ancor oggi esclamano ”cazzarola!” per non dire la “parolaccia” cazzo! A proposito, da dove viene questa parola, spesso nient'affatto volgare e dai molteplici significati? Ed è vero che la usarono Shakespeare, Machiavelli e perfino Leopardi? E, per par condicio, che cosa c'entra il nome dell'organo femminile, fica, col dolcissimo frutto di Ficus carica? Anche su questo si sono esercitati gli uomini di cultura.
      E la torta? Non esiste al mondo nulla di meno torto, più piano e più liscio. E invece, pensate un po’, deriva da “pasta torta, ravvolta”. Grazie tante: prima di essere spianata è stata impastata, cioè torta e ritorta! E questa assurda etimologia viene dal sec. XII (Gabrielli). A proposito di pasta, quella da cuocere è solida e dura, altro che pasta. Ma deriva pur sempre da una pasta fluida di semola e acqua calda... Mentre il dolce del bar, che davvero è ritorto, si chiama cornetto o croissant, da luna crescente (lune croissante), essendo in forma di mezzaluna turca e in ricordo della pasticceria ottomana dopo la battaglia di Vienna in cui i Turchi furono (per fortuna) sconfitti. “Crescente”? Ma come si fa a distinguere un cornetto… crescente da uno calante (décroissant)? E allora, perché il formaggio crescenza si chiama così? Oddio, che mal di testa.
      Ad ogni modo, basta dargli forma ovale piena e allungata e a Roma diventa maritozzo, cioè grosso marito. Forse perché, come il libum dell’antica Roma, era un piccolo dolce tradizionale che i fidanzati regalavano alle fidanzate prima del matrimonio, e queste ultime amorevolmente li chiamavano maritozzi, cioè quasi mariti. E sia il nome che la forma allungata originaria fanno pensare a qualcosa che “fa da marito”, sia pure in modo rozzo e inadeguato. Che alle donne dovevano ricordare i godemiché  (gode Michel=godi Michele) falli artificiali di pelle molto diffusi per secoli fino al Novecento, fatti per gli amori solitari di suore, vergini, zitelle attempate, vedove e donne carcerate. E allora sì, nome indovinatissimo: maritozzo! Anche il Belli gioca con questo doppio senso (Er pane casareccio, 1831) testimoniando che ai suoi tempi era un dolce quaresimale duro “di pasta scrocchiarella e tosta”. Ancor oggi, pur essendosi ammorbidita la pasta, con maritozzo qualche donna romana, parlando ironicamente con le amiche, intende un marito, un marito grande, grosso e un po’ stupido da accalappiare. Meglio se “una pasta d’uomo”. L’ideale, per un certo tipo di femmina.
      A Roma, poi, il vizio popolare di peggiorare e ridicolizzare col doppio senso ogni nome era una vera e propria rivalsa sociale, una sorta di vendetta dei poveri contro i ricchi e potenti, ma anche degli ignoranti contro i colti. Per dirne una, la traversa di via Giulia dove abitava il nobile casato dei Cèvoli, a forza di dirla e ridirla, divenne un toponimo dispregiativo: “vicolo der Cefalo”. Che è il pesce che tra i romani ha la peggior reputazione. D’accordo, quei marchesi non saranno stati il massimo della simpatia, fatto sta che “vicolo del Cefalo” è rimasto. Poveri linguisti futuri! Ditemi voi come potranno spiegarsi la presenza di “cefali” in pieno centro di Roma.
      Senza contare le tante parole che derivano pari pari da altre lingue, malamente pronunciate, come bistecca (dall’inglese beef steak, fetta di bue), stoccafisso (dall’inglese stock fish, pesce immagazzinato), perfino boscimani (bush men, gli uomini dei cespugli) e il nostro “italianissimo” lupo mannaro (tardo lat. lupus hominarius, cioè lupo umanizzato; cfr. ingl. wolfman e it. colto licantropo dal gr. λυκάνθρωπος). Quando poi non ci sono, tutt’oggi, equivoci imperdonabili e sottoculturali: lo smoking, abito “per fumare”, preso in provincia per abito da sera, il tailleur che in francese vuol dire solo sarto, così come gli champignons, che in francese significano genericamente solo funghi, ma in Italia stanno, chissà perché, per i soli prataioli.
      Proprio per questo, la ricerca sull’origine e la ramificazione delle parole è entusiasmante. E non basta l’etimologia. Le sorprese sono ad ogni svolta. Chi conduce questo tipo d’indagine si sente sempre un poco Sherlock Holmes.
      E’ quello che càpita quando dobbiamo interpretare e tradurre nel linguaggio di oggi i termini più curiosi dei sonetti di G. G. Belli, nel blog Il Mondo del Belli a lui dedicato. Tutto bisogna mettere nel conto: l’italiano dell’Ottocento e quello di oggi, la lingua romanesca antica e moderna, gli usi antichi, addirittura medievali, le possibili origini latine, le inevitabili deformazioni analogiche, i significati che cambiano – andando di bocca in bocca – a seconda del contesto e dei termini derivati.
      Studiando per l’interpretazione e il commento di un sonetto del Belli (v. articolo sulla bellezza), ci siamo imbattuti nella parola “buggerone”, e nei tanti termini da cui deriva o che ne derivano: buggero, buggerare, buggeratura ecc. Ci hanno soccorso in questa ricerca, oltre alle prose di Zanazzo e ai sonetti del Belli, il dizionario etimologico Cortellazzo-Zolli, il Gabrielli, e per gli aspetti sessuali di buggerone e bardascia la ricerca di Giovanni Dall’Orto (“Le parole per dirlo”). Si è scoperto così un divertente intrico da sciogliere, ed è una piccola vittora ogni volta che si riesce a togliere una spira dal nodo.
      Tutti noi abbiamo, almeno una volta nella vita, preso una “buggeratura”. Ma ormai lo dicono solo le donne e i bambini, credendo che sia più pulito di fregatura. E invece, no: entrambi sono stati o sono termini sessuali molto pesanti. Infatti, mi aveva sempre insospettito la traduzione in gergo popolare romano di oggi del medesimo concetto: “Giorgio ha comperato un Suv, ma ha preso un’inculata”. Ma in tutt’Italia, anche nei salotti e alle interviste in tv, perfino i politici dicono che “il cittadino l’ha preso in quel posto”. Cioè ha fatto un pessimo affare, è rimasto ingannato, buggerato. Ebbene, si tratta del medesimo concetto. La storia della parola conferma questa coincidenza tra imbroglio e sessualità anale, attiva e passiva, come vedremo. 
      L’uso letterario, nel senso di ingannare, è documentato almeno dal 700-800 in poi. Vincenzo Monti ancora nel 1778 scrive: …“mandarmi a far buggiarare in buon lombardo”, mentre Giuseppe Giusti nel 1848 usa la grafia buggerare. Buggeratura è registrato come raggiro, imbroglio, da Devoto-Oli 1967, mentre il Fanfani nel 1863 usava la forma buggerata. Ma gli usi nel senso sessuale sono più antichi, si veda anche buggeressa (Rustico di Filippo, XIII sec, e buggioressa a Lucca ancora nel XIX sec. (Cortellazzo-Zolli).
Il punto di partenza è il latino tardo bugherum (bulgherus), bulgaro, che in seguito all’eresia patarina dei Bulgari in un testo del 1201 diventa anche sodomita. Epiteti offensivi subìti anche da altri eretici, come i Catari (?) come il gazaro in Bonvesin de la Riva e il veneziano gazarar, parallelo di buzarar, cioè buggerare (Cortellazzo-Zolli).
      E’ dalla storia della Chiesa e dal razzismo dei popoli antichi che parte l’avventura. Com’è, come non è, i poveri bulgari, probabilmente in quanto patria della setta eretica dei Catari o Albigesi, dovevano avere in tutta Europa, fin dal Medioevo, una brutta fama non solo di traditori e imbroglioni, ma anche di sodomiti (omosessuali attivi e passivi). Naturalmente questa era l’accusa, certamente campata in aria, propalata dalla Chiesa di Roma nel XIII secolo contro una setta cristiana dissidente. E con quale faccia tosta! Proprio i preti pedofili, da sempre dominati dal vizio della violenza sessuale verso i bambini, si mettevano ad infangare gli eretici. Senti chi parla: potevano mai i Catari essere peggio dei preti di Roma che li accusavano?
      Ma abbiamo visto citata una buggeressa. Controparte femminile della sodomia del buggerone maschio? Sembra di sì. Secondo il Dall’Orto, “è possibile che tale accusa alludesse in origine all'uso di pratiche anticoncezionali nel coito eterosessuale (i Càtari ritenevano che tutto il mondo sensibile fosse opera del Male, e quindi procreare fosse "cattivo"), perché buggioressa e buggeressa ("donna che si lascia sodomizzare"), sono attestati nella nostra lingua almeno una settantina d'anni prima di buggerone ("uomo che sodomizza").
Anche in Italia ci fu a lungo identificazione fra "eretico" e "sodomita", secondo i versi del poeta Cola di messer Alessandro, di Perugia (tra Duecento e Trecento), che accusa gli abitanti di Spoleto di sodomia abituale e di eresia patarina:

Amico, sappie l'uso de Spolìte (...)
femmine commune [prostitute] ne so' sbandite (...)
son tutte [tutti] patarine, al ver parlare,
e 'nnaturate sodome condìte [sodomiti incalliti].
 

(in M. Marti, 1959)

Stereotipo per stereotipo, questi vizi “orientali”, però, guarda caso, coincidono con le dicerie comuni a Venezia, regina del Levante, sui popoli “levantini”. E il Levante, non si sa dove finisce, ma certo comincia subito ad est di Trieste (o di Bari), e comprende perciò jugoslavi, macedoni, croati, sloveni, montenegrini, albanesi, greci, bulgari, romeni, zingari, turchi, arabi. Tutti luoghi in cui, secondo una vulgata dura a morire, vedere rispettato il proprio contratto o, a scelta, il proprio didietro, è statisticamente arduo. E la capitale, anzi l’università dell’intrigo, doveva essere Bagdad: vedi gli inganni geniali delle Mille e una Notte. Napoli, al confronto è estremo Nord!
      Insomma, “bulgari”, in quanto davano fregature, qualcuno direbbe anche infinocchiavano. Ma fregare è anche avere un rapporto sessuale. E infatti quegli omaccioni avevano anche il viziaccio di sodomizzare gli uomini. E allora infinocchiare ci starebbe bene. Socrate conferma: è proprio nel Levante che nasce la pedofilia istituzionalizzata, nobilitata addirittura come “costume etico-pedagogico”, ipocritamente reso rispettabile come “amore greco”. Ma pur con belle parole sempre nella sodomizzazione di bambini andava a finire.
      Ebbene, da bulgaro (cfr. anche il francese boulgre o bougre, e l'inglese bugger) con accrescitivo e spregiativo in –one, forse  attraverso un ulteriore adattamento latino in bugeronem (da: bugero-bugeronis), viene bulgarone, buggerone o buggiarone o buzzarone, buggerare. Sempre nel doppio significato, uno reale, di sodomizzare (penetrazione anale di uomini), l’altro figurato, di ingannare, imbrogliare. Il buggerone, insomma, era il sodomita attivo, cioè l’opposto della bardascia o bardassa, altra antichissima e popolare voce italiana, declinata al femminile (dall’arabo bardag, giovane schiavo), che era il sodomita maschile esclusivamente passivo che ama essere penetrato. Due categorie contrapposte e non confondibili tra loro, come l’acqua e il fuoco, la pazzia e la prudenza:

Sei mezzo pazzo e mezzo sei prudente, (...)
mezzo bardascia e mezzo buggiarone
dimmi, per Dio, com'e possibil questo? 

(Matteo Franco, in Sonetti di Matteo Franco e Luigi Pulci, 1759)

Ed ecco un bel ritrattino sui giovani depravati e prostituti, anche e soprattutto allora tanto numerosi, data l’estrema povertà, dedicato ai tanti che ottusamente ripetono ignorando la storia del costume: “Oggigiorno, signora mia, non si sa dove andremo a finire…”:

Queste bardasse isfondolati e ghiotti
vanno scopando il dì mille bordelli
e per mostrarci se son vaghi e belli
cercando van per chi dietro gli fotti. 


(Queste bardasce sfondati e avidi vanno scopando tutto il giorno mille bordelli e per farci vedere che sono belli vanno cercando chi dietro li penetri, Francesco Da Colle, sec. XV, in A. Lanza 1973).

Anche la satira del Parini, nel ‘700, prende di mira un buggerone che giunto a Roma (doppio senso col Culiseo), confessa di voler solo inculare, e di non amare il sesso debole cioè le donne (“darei cento gonnelle per un pantalone”):

Giunto al cospetto del Culiseo Romano
così cantava un buggeròn toscano:
“Il mio genio è buggerone,
non inclina al sesso imbelle:
donerìa cento gonnelle
per un lembo di calzone”.


E una satira del Seicento attribuita a Giovan Battista Marino, ma col sapore goliardico della Ifigonia:
Fatevi buggeròn, voi che non sête,
e in cul ponete ogni speranza vostra  (...)
piangete il tempo che perduto avete  (...)
e queste pote [fighe] siansi sempre a noia,
lasciando le morir, crepar di foia. 

(Foglio, s.i.t., 1650 ca. Parigi, Bibliothèque nationale, Enfer).

E anche il sulfureo Aretino, figuriamoci, non si sottrae all’esortazione “contro natura” spacciandola per naturale: se la figa non ti piace, “muta luogo”, perché non c’è uomo che non sia, sotto sotto, buggerone:

E s'in potta ti spiace, muta luoco,
ch'uomo non è chi non è buggiarone. 

(Pietro Aretino, Sonetti Lussuriosi I,2,7-8)

E’ di questa idea anche il prete mascalzone ritratto dal Belli, che quando una donna va a confessargli di aver tradito il marito, le fa fare “penitenza”, buggerandogli, cioè sodomizzandogli il bambino di sette anni:

E llui pe ffajje fà la pinitenza
j’ha bbuggiarato un fijjo de sett’anni. 

(Er Curato de ggiustizia, 1833)

E quanti buggeroni, oggi diremmo pedofili, tra monsignori e cardinali! I sonetti del Belli (dell’Ottocento) ne sono pieni. Ma il fenomeno era antico: ecco una pasquinata romana del Cinquecento. Segno che la pederastia è proprio un vizio connaturato della Chiesa cristiana, specialmente romana:

Qui giacion tutti quanti i cardinali,
chi buggeròn e chi per altro tristo,
ma ciaschedun di lor nemico a Cristo.  

(Anonimo [1540], in: V. Marucci, Pasquinate romane del Cinquecento, Roma 1984).

Ma non si pensi che buggerare sia una parola romanesca. Nel senso di ingannare è ancor oggi nel linguaggio comune e familiare italiano. Solo che ha perso il primitivo valore pederastico, omosessuale. Buggerone, invece, era comune nell’Ottocento in tutt’Italia e in gran parte dell’Europa (cfr. l'antico tedesco puzeròn e lo spagnolo bujarròn). E’ o era presente nell’italiano toscano corretto e letterario, come in quello familiare e dialettale: dal lombardo bolgiron, al veneto buzeron o buzaron, al siciliano buzzarruniBuzzarruni? Ah, ecco da dove proviene l’epiteto di buzzurri, altrimenti inspiegabile, dato dai romani papalini ai piemontesi e in genere “nordici” che invadono Roma dopo il 1870! Il parallelo con l’analogo nomignolo di froci dato a svizzeri (guardie del Papa e mercenari) e tedeschi dai romani è evidentissimo. In realtà buggiarone o buzzurro era un dispregiativo per chiunque venisse da fuori, straniero del nord o dell’Oriente che fosse. 
      Ed erano tempi in cui, per ignoranza specialmente geografica, non si andava troppo per il sottile: un cereale non casalingo “venuto da fuori” era chiamato dal popolo grano saraceno (Fagopyrum esculentum, prob. origine: Asia Centrale) o addirittura gran turco (Zea mais, America centrale). Poi per estensione buggiarone divenne, passando di bocca in bocca nel popolo, specialmente romano, il concentrato di tutte le negatività, anche non sessuali. Insomma, nel gergo romanesco popolare-familiare del Belli, la parola è come se passasse da “puttana” (femminile) a “figlio di puttana” (maschile), cioè persona che cerca di fregarti, egoista, aggressiva, strafottente, cinica ecc.:

Bevi fijo; e a sta gente buggiarona
Nun gnene fà restà manco una goccia. 

(Bevi, figlio e a questi mascalzoni non farne restare nemmeno una goccia. L’aducazzione, G.G. Belli).

Sorprende, infine, che un ulteriore significato sia grande, grosso, molto grande, eccezionale, oppure di grande quantità, e perfino una cosa qualunque non specificata ma comunque detta in modo dispregiativo, com’è tipico della parlata romanesca. E anche qui ci sono seri documenti registrati anche dal Dizionario romanesco del Ravaro: “un freddo buggerone” (G.G. Belli), “Avecce ‘na fifa [paura] buggerona”, ‘na sete buggerona” (Zanazzo) ecc. Infatti, il sostantivo buggerìo è una grande quantità. Ma stranamente buggero è una cosa qualunque non specificata, detta però per sfottò. Come un fregno, un coso ecc., insomma qualunque oggetto o persona di nessun valore, che non ci si degna neanche di nominare. “Ah, ho capito, signora maestra – poteva dire alla fine dell’800 Richetto, il borgataro romanesco dell’ultimo banco, dimostrando di non aver capito niente, oppure di aver capito tutto – “buggiarà Santaccia (*) vuol dire in culo a màmmeta, come dicono i napoletani, mentre Santaccia buggiarona vuol dire che Santaccia è una donnona grande e grossa, ma è anche una gran paracula e fiija de na mignotta [furba, spavalda e cinica oltremodo]!”

NOTA
(*) Santaccia nella Roma del Belli [cfr. i due sonetti su “Santaccia de piazza Montanara”] era una notissima “donna di malaffare” d’infimo rango, volgarissima ma di cuore buono, che aveva operato probabilmente a inizio Ottocento nella oggi scomparsa piazza Montanara. Così era passata in proverbio come tipo di prostituta laida. Ma col tempo “buggiarà Santaccia” era diventata una imprecazione volgare, perfino un intercalare catartico del popolino romano, comunque severamente vietato. Infatti in un sonetto del Belli un parrocchiano deve pagare una multa-penitenza al parroco, che aveva messo una curiosa tassa sulle parolacce, per averla pronunciata in sua presenza.

IMMAGINE. La lingua è in movimento e le parole sono in evoluzione, d’accordo. Ma se si sa dove vanno, non si sa da dove vengono.

JAZZ. Coleman Hawkins e Ben Webster, grandi stilisti del sassofono tenore, si incontrarono nel 1957 a Kansas City in uno dei famosi e felicissimi concerti organizzati da Norman Granz. Con loro, Oscar Peterson (piano), Ray Brown (batteria), e Herb Ellis (chit). Ecco il brano Tangerine.

AGGIORNATO L'11 OTTOBRE 2018

Etichette: , , ,

3 Comments:

Anonymous Von Paulus said...

A proposito dei versi dell' Aretino

E s'in potta ti spiace, muta luoco,

darei sul "muta luoco" una versione piu' attendibile: cioe' come invito a passare dal davanti al didietro, in parole povere mettilo in c***

26 giugno 2011 alle ore 19:53  
Blogger Nico Valerio said...

Sì, anch'io sono arrivato alla stessa conclusione dopo aver trovato conferme in altri documenti. Perciò ho cambiato la versione e aggiunto i nuovi testi.

26 giugno 2011 alle ore 23:00  
Anonymous Signora di Bergamo said...

Davvero complimenti per un piccolo saggio scoppiettante di erudizione e humour coltissimo. BBravo!

25 maggio 2012 alle ore 17:59  

Posta un commento

<< Home