09 novembre 2012

CRISI. Quell’idea di decadenza, morbosa e masochista, che piace tanto all’Europa

crisi Sì, lo so, “non è il momento”, e poi ovviamente “ci sono ben altri problemi”. E comunque “proprio adesso in tempi di crisi?” La crisi come Grande Scusa Universale. Ma la crisi è anche l’occasione di una svolta epocale, positiva, una palingenesi che può servire agli intelligenti per riscrivere le “regole del gioco” distribuendo più equamente il potere tra Produttori e Acquirenti, Stato e Cittadini, furbi Carnefici auto-nominatisi capi e rassegnate Vittime impotenti, come si legge qui.

A proposito, ma che cosa è la “crisi”? Quest’idea di dramma e decadenza, d’inesorabile e ricorrente “discesa nel Maelström”, nei gorghi senza fine dell’Oceano, come in certi sogni ricorrenti dell’adolescenza, è un refrain che dura, credo, dal primo Novecento, quando in Europa deve aver preso piede per imperscrutabili motivi di psicologia sociale che lascio agli storici delle idee e del costume stipendiati dallo Stato l’idea masochistica di “crisi”. A scopo chiaramente apotropaico, scaramantico, o come dicono a Napoli “anti-jettatorio”. Proprio come rispondono contadini, commercianti, attori e cacciatori, le quattro categorie più superstiziose, quando gli chiedete come va. Ma a forza di evocarla, la “crisi” si materializza davvero, direbbero nei vicoli dietro via Roma. E infatti da allora, guarda caso, le “crisi” si sono ripetute ogni anno. Crisi economica, crisi politica, crisi morale, crisi esistenziale, crisi di valori, crisi di identità, e così via. Tutto va bene nel minestrone, purché ci sia la parola “crisi”.

E dire che già in latino crisis voleva dire ben più della originaria crisis greca (separazione, taglio, riferiti alla trebbiatura, al raccolto delle mèssi): era già “periodo critico” in Seneca o addirittura “giudizio critico” in Lucilio (Campanini Carboni). Ma allora avevano ragione Leopardi e perfino l’ottuso prete dei sonetti satirici del Belli! Nel Tommaseo ha altri due significati: “momento pericoloso o decisivo del cambiar faccia un affare” oppure, riprendendo Seneca, il termine medico di reazione della Natura all’azione d’un morbo (es. “La crisi non è sempre salutare”).

Comunque sia, la parola piace, ci voleva, la si aspettava, si incastra perfettamente nell’auto-compatimento dell’uomo moderno, specie meridionale, che tutto il proprio male addebita all’esterno. Diciamo che cade come il cacio sui maccheroni, e ciascuno se l’aggiusta come vuole. La “crisi” c’è sempre e ovunque, specie nei Paesi latini e in Europa, meno in America del Nord. Guarda caso.

In America e in Europa al generico “Come va?” è d’obbligo rispondere per dignità, ma anche a scopo apotropaico e sociale, per non coinvolgere i conoscenti superficiali in un’imbarazzante solidarietà: “Tutto bene”, “Benissimo”. Solo nei paesi del Sud Italia oppure tra contadini, cacciatori e pescatori – che della lamentela e autocommiserazione fanno una vera e propria superstizione – si usa rispondere “Ah, non me ne parli: un disastro. Non le dico le tasse… i guai in famiglia… e poi il raccolto è la metà dell’anno scorso!” Mai sentito dire in vita mia, e mai letto neanche sui libri: quest’anno va tutto bene, signore mio, siamo nell’abbondanza, affari di famiglia-industria-commercio-politica vanno a gonfie vele, il tempo volge al bello, l’economia del Paese prospera, il Governo fa il bene dei cittadini, i cittadini sono rispettosi delle leggi, solidali tra loro e grandi lavoratori. Neanche il più bugiardo venditore di almanacchi dei tempi di Leopardi avrebbe propagandato il suo opuscolo in questo modo.

Ma, a parte la recita da sfortunati e l’evocazione del Male che secondo i più superstiziosi dovrebbe “portare bene” (v. il tabù degli auguri per la gente dello spettacolo e la sua sostituzione con lo stupido “crepi il lupo” o “merda”), l’infelicità dell'uomo, quella vera, è dunque la sua normale esistenza, neanche una “crisi” passeggera. E ci deriva proprio dall’essere uomini, anzi uomini moderni, finalmente imbevuti di Ragione e spirito critico, sostenava il filosofo-poeta di Recanati. A differenza dei “popoli fanciulli” dell’Antichità più remota, che le “crisi” le superavano d’impeto oppure le subivano senza scampo, ma certo non le vivevano a lungo, per tutta la vita, rivoltandovisi con insano godimento. Ecco perché forse erano “felici” senza saperlo. E dunque è “colpa” dell’introspezione dell’Illuminismo? Certo, sono il pensiero libero, la critica, la cultura, i libri, il vero Male del Mondo, fa dire il caustico G.G.Belli ad un prete romano in un suo sonetto: “I libri, figli miei, non li leggete”.

Ma dal pessimismo universale dell’Ottocento all’idea ossessiva di “crisi” molto ci corre. E’ il Novecento a vivere e prosperare sulla ricorrente, onanistica, idea di Crisi. L’acme del godimento, dopo l’antipasto del 1915-1918 con la Grande Guerra, guerra di crisi, e la successiva epidemia di influenza “spagnola”, la più devastante crisi sanitaria («Avete visto che avevamo ragione?»), ci fu nel 1929, non per caso in un Nord America ancora inglese nella psicologia.

Ma a parte le guerre, i lazzaretti e la banale economia, un intero filone di pensiero ha vissuto sulla decadenza, tra cui i maestri Spengler e Benda, Ortega y Gasset e Huizinga. Senza contare il superomismo e individualismo anarcoide a cui ha attinto il sorgente Fascismo, da Guénon a Evola, mettendo nel minestrone andato a male e da correggere un pizzico di Spirito, un’oncia di Sacro, una spolveratina di Simbolico, e una libbra buona di Autoritarismo.

Come se, prendendo fischi per fiaschi e mischiando tutto (filosofia, storia, economia, psicologia di massa), l’asserita crisi dell’Europa fosse la auspicata, sotto sotto, fine dell’Occidente o del Liberalismo o addirittura del Pensiero stesso o della Coscienza comune degli umani, e non solo l’Italia o la Germania, ma il Mondo tutto, non aspettasse altro per risolvere la propria Crisi che la personalità d’un Grande Uomo, un uomo solo, riprendendo l’autoritarismo scellerato e crudele dell’Oriente o almeno la sua “saggia” atarassia, molto comoda per i despoti. Perché, si sa, stravolgendo Leopardi, non c’è stata mai crisi nelle ashram dell’India dove i saggi meditano in nome d’un invisibile Dio e lo Spirito Sublime si incarna – guarda caso – nei più cenciosi e puzzolenti fachiri.

Si è visto poi che a rifare il verso a questa tesi erano tanti piccoli uomini, meschini, mediocri in tutto, giornalistucoli, militari da operetta o pittori dilettanti. Altro che Spirito! Figuriamoci se il Logos si sarebbe sprecato a inverarsi in quegli omuncoli piccolo-borghesi d’una sottocultura provinciale dedita alla perdizione di letture esotiche d’evasione, sulla scia d’un Guido da Verona o d’un Salgari del “pensiero” (si fa per dire). Così, essi stessi furono causa di ulteriore, più drammatica e definitiva crisi: quella vera, finalmente.

JAZZ. Il bel brano Nica’s Dream (dalla baronessa Pannonica de Koeningswarter, protettrice di jazzisti del bop: a casa sua morì Parker) in due interpretazioni, la prima col quintetto di Horace Silver (Blue Mitchell tromba, Junior Cook sax tenore, Gene Taylor basso, Roy Brooks batteria), che mi sembra la migliore in quanto a registrazione su YouTube, e la seconda in sestetto con l’aggiunta di Curtis Fuller, al trombone. Anni Cinquanta.

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