30 settembre 2012

JAZZ. Il boom dei festival all’italiana su Repubblica: le piazze e il conformismo.

Perugia Umbria jazz

Ecco la famosa, storica, inchiesta sul jazz pubblicata da Repubblica. Che osò dire – ed era stato il giornale più conformistico in questo campo – le amare verità sul “Re Nudo” del jazz all’italiana che allora non si potevano scrivere neanche sui giornaletti alternativi. Questo proprio mentre il fenomeno era in atto. Un miracolo o un colpo di mano?
Ancor oggi non so spiegarmi come mai l’accettarono e pubblicarono: andava contro tutti i luoghi comuni e gli stereotipi snob e sinistresi della Repubblica. Ma forse la risposta sta in questo: nell’abilissima confezione. Lo ammetto, sapendo su quale testata stavo scrivendo, mi ero preoccupato di restringere ciascuno dei cinque-sei concetti indigesti in pochissime parole, ben scelte, e di annegarli furbamente in un contesto apparentemente “di costume”, quindi considerato erroneamente morbido, mondano ed elegante, come quello allora usato da molti giornalisti nei salotti. Un trucco psico-linguistico che ho usato spesso per vincere le Redazioni, che più che leggere controllano il tono stilistico degli articoli partendo dai capoversi, e dando molta importanza al “peso” (in numero di parole) dei concetti espressi. A quei tempi, sia chiaro: oggi neanche leggono.
Ma, quel che è più strano, sorpresa nella sorpresa, piacque moltissimo ai redattori degli spettacoli, che vennero a complimentarsi. Uno di loro disse anche, come togliendosi un peso: «Finalmente!». Segno che c’era già una fronda culturale interna, come dire, di tipo liberal-radicale, che non ne poteva più delle “veline” che cadevano dall’alto; della costruzione ipocrita del consenso attraverso i concerti e i festival; del conformismo della musica perennemente di “avanguardia”; dell’uso politico ed elettorale della cultura (musica e jazz in particolare); delle incensature d’obbligo di finti critici – in realtà agit prop – a musicisti di scarso valore ma “impegnati”, raccomandati, protetti dai Festival dell’Unità, che dal palco salutavano a pugno chiuso; della retorica populistica della “musica in piazza” servita gratis – cioè a spese di tutti – da Regioni e Comuni a pochi privilegiati distratti, rumorosi e ignoranti. Una piazza per cui il jazz era solo un sottofondo.
Come ci riuscii? Intanto per gli espedienti semantici che ho detto. Ma anche per una serie di circostanze favorevoli. Intanto l’inchiesta era formalmente per le pagine del settore “Week End” e quindi la guida in appendice ai club e alle scuole delle varie città (che qui non ripubblico) era trainante. Poi, ancora, ero quello che aveva già pubblicato sull’Espresso, prestigioso giornale fratello, un’inchiesta sul jazz ancora più ampia e piccante che aveva fatto epoca e aperto gli occhi a tutti. Infine, ero già uno stimato collaboratore della Repubblica su altri temi (salute, alimentazione ecc.) e dunque si fidavano: non avrei mai superato un certo limite. Così architettai il piano fin nei dettagli, approfittando di un’assenza del critico ufficiale, Castaldo, poco interessato al jazz e piuttosto innamorato di certe musiche che io giudicavo pop o “fusion”. Se l’avesse saputo, avrebbe messo il veto. Strano, piuttosto, che il Capo-servizio spettacoli abbia approvato in assenza del critico del settore: succede molto di rado nei giornali, a meno che il critico non sia mal visto dalla redazione. Si vede che il Capo-servizio non ne poteva più dell’ipocrita mondo del jazz tutto dipinto di quel finto rosa-rosso che vigeva allora, oppure che inchieste di vasto respiro e anticonformistiche il critico ufficiale non le proponeva mai. Comunque, fu un colpaccio fortunato e ben condotto.
Per anni, ripensando a questa inchiesta conquistata con un colpo di mano e a quella precedente sull’Espresso, ho goduto intensamente per il violento disappunto che avevano procurato non solo a critici-organizzatori-musicisti integrati nel sistema del jazz d’allora, ma per l’improvviso spiraglio di luce che aveva illuminato le menti di molti appassionati di jazz intorpidite dal buio della Ragione e della Storia, quelli per cui il jazz è “ideologia” rivoluzionaria o “comunista”, e quindi è solo protesta o avanguardia (e perciò il mediocre Archie Shepp o il cacofonico trio SOS di Surman-Osborne-Skidmore sarebbero di molto superiori alla big band del grande Fletcher Henderson), oppure la storia del jazz comincia da Ornette Coleman o Coltrane. Ma ecco la famosa inchiesta:

Umbria Jazz Perugia corso Vannucci luglio 1975 (arch. UJ) SEMPRE VIVO IL BOOM DELLE JAM SESSION MADE IN ITALY
LA GRANDE GIUNGLA DEL JAZZ ALL’ITALIANA
Nico Valerio, Repubblica, 12 novembre 1978
In Europa, in America, sono sbalorditi e un po’ perplessi. Possibile che ora l’Italia sia anche la patria del jazz? Nell’ex Bel Paese della lirica, dopo sette anni di crescita dell’ascolto della musica afro-americana, col proliferare di concerti, festival, club, scuole, gruppi, dischi, articoli, rubriche radio e tv, libri e audiovisivi di jazz, ormai non si parla più di “curiosità” o di “scoperta”.

È vero, siamo i primi in Europa per numero di festival. Quest’anno ne abbiamo avuti una ventina, buoni e meno buoni, culturali (pochi) e turistici (molti). Ora ci si mette anche la fioritura, a decine, delle libere scuole di quartiere, dove per poche lire ti mettono in mano uno strumento e ti spiegano tutto, dall’improvvisazione alla poetica di Coltrane. Una catena di montaggio dove si entra spettatori da piccionaia e si esce protagonisti patentati di rischiose jam-session. Che pretendere di più? Quanto basta per creare, sia pure nei ristretti confini del jazz, un vero e proprio “caso Italia”.

Il jazz ora è più vicino. Anche per un vacanziere incallito, per un globe-trotter con la sindrome “on the road” in corpo, la musica di Parker e di Coleman è sempre dietro l’angolo.

Uno si mette in macchina il fine settimana, poniamo, per vedere le ville venete o il Chianti. Be’, è sicuro di trovare un club, un concerto, un festivalino, un seminario, un corso autogestito, una scuola di jazz aperta magari proprio il sabato. Nelle città di provincia e nei quartieri gli appassionati s’incontrano nel più fornito negozio di dischi jazz e là, come carbonari, commentano le novità o si accordano per epiche imprese musical-contestative. Fin qui niente di strano, succede anche all’estero.

Quello che invece all’estero non capiscono è come mai, proprio da noi, il jazz si avvii a diventare un vero e proprio servizio sociale gratuito, un bene di consumo popolare pagato dallo stato, dalle regioni, dai comuni. Questo in un’Italia carente di auditori, biblioteche, scuole, ospedali. Immaginate Bengodi, o il Villaggio dei balocchi di Collodi: solo che invece di papparsi la rituale casa di torrone e cioccolato, il ragazzo viziato di casa nostra – caso unico al mondo – fa epiche abbuffate, a sbafo, di hard-bop e di blues, con una spolveratina d’avanguardia nera e bianca a piacere, come fosse vaniglia.

Musica difficile, il jazz è oggi in casa nostra molto più “parlato” e discusso che suonato e capito: o colonna sonora per gli incontri sballati in piazza, o alibi gratuito d’un finto impegno culturale. Un pot-pourri di snobismo, sottocultura e motivazioni politiche.

Lontani i tempi eroici delle cantine, il jazz, anzi un certo jazz, è proposto al nuovo pubblico in modo a dir poco offensivo: ambienti squallidi e antiacustici come stadi e palasport, spazi limitati, confusione, assenza di proposte culturali, perfino scarso divertimento. Il tutto condito con lo slogan demagogico della “musica gratis”. Tra gli show d’un Hampton esportato dall’impresario Wein, e l’ultra-avanguardia noiosissima d’un Coxhill, spesso non esiste una terza via culturalmente dignitosa e adatta a tutti.

E poi oggi il jazz è nel “sistema”. Dalla Filarmonica al Festival dell’Unità, fa parte del cerimoniale ufficiale, della tradizione delle feste paesane, retoriche o populiste, da rispettare comunque. Stonati e ben pagati musicanti di quartiere, “critici” d’occasione (chi ha studio d’avvocato, chi fa il barman, chi il grafico) e tutta la colorita corte dei miracoli d’ogni fiera, lo suonano, lo commentano, l’ascoltano distrattamente, ma sempre con l’occhio umido, proprio come un tempo i “veci” ascoltavano “Il Piave” e “Fratelli d’Italia”.
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UN CALEIDOSCOPIO DI TENDENZE DOPO LE NOSTALGIE DEL PASSATO
Ritorna lo stile big band
E il jazz italiano? Spentosi – ma spesso è una sopravvivenza penosa, quasi una morte apparente – il revival delle bande di amatori, col loro feticismo per i celebri assoli degli anni ‘20 e ‘30, il jazz made in Italy si ispira a Parker, il sassofonista che rivoluzionò i modi e la concezione della musica afro-americana, ma anche a Coltrane, a Coleman e agli eredi inquieti del free. Diversamente da altri paesi europei, da noi non è coltivato un vero “stile nazionale”. Le più diverse inclinazioni ed esperienze, dal blues al bop, al cool, al free e al post-free, convivono gomito a gomito, civilmente. Insomma, ognuno a modo suo: tot capita tot jazz. Tanto per non smentire il nostro sfrenato individualismo.

Una via maestra (mainstream, in gergo) molto frequentata è il nuovo hard-bop, una musica corposa e dinamica, sorretta da una ritmica potente, che conserva un tocco, un aroma appena, di “musica libera”. Qualche nome? Ci sono un po’ tutti. Su un versante i soliti Basso, Piana, Fanni, D’Andrea, ex imitatori, solisti e uomini di fila della orchestra RAI, in genere professionisti e routinier impeccabili, incapaci però di colpi d’ala, di geniali guizzi creativi. Sul versante opposto il quartetto di Giammarco e di Giovanni Tommaso, il pianista Pierannunzi, l’ottetto del Sax Machine di Biriaco, forse la novità più strepitosa della stagione, e la big band Grande Elenco Musicisti di Vittorini. Ma anche qui tutto appare studiato e un tantino accademico.
Quest’anno comunque “va molto” il recupero modernizzante, spesso osé, dello stile big band: sezioni bilanciate, sax duri, pochi impasti timbrici, ritmica parossistica. Certo, Fletcher Henderson, il capo-orchestra nero che mise a punto per primo lo stile “grande orchestra”, si rivolta nella tomba, ma il risultato è un jazz eccitante che piace molto ai giovani.

Qualche sorpresa viene dagli ex-gasliniani, dai quali tutti si aspettano che suonino, agiscano, parlino come dei perfetti “negri d’Europa”. Dopo aver fatto di tutto per apparire neri sul serio, enfatizzando gli aspetti esteriori d’una negritudine di riporto, un po’ cinematografica e Kitsch, questi giovani “maledetti” del jazz italiano sembrano rinunciare all’equazione retorica “paisà, negro d’Europa”. Eppure di una negritudine nostrana, fatta di rabbia meridionale, vigore mediterraneo e recupero del popolare, si era parlato a proposito dei giovani Urbani, Scascitelli, Della Grotta & C. Se non l’idea fissa del folklorismo, una moda, malgrado tutto, di segno ambiguo e talora reazionaria, almeno l’uso di temi e inflessioni locali potrebbe rivelarsi, accanto alla scoperta cantabilità, un dato di diversificazione del nuovo jazz italiano. I migliori, ad ogni modo, sono i fuori schema, gli outsiders. Tra questi il pianista Gaslini, ottimo press-agent di se stesso, è un efficace galvanizzatore di gruppi. Il suo sestetto, con Bedori e Trovesi ai saxes, distilla una sintesi colta di moduli già etichettati da tempo: il jazz “di protesta”, la scuola europea, la musica da film. Guido Manusardi (piano) e Enrico Rava (tromba) sono riconosciuti i jazzisti più maturi nei rispettivi strumenti.

E le donne? Ci sono, eccome. Nell’ultimissima leva non mancano pianiste, flautiste, bassiste, sassofoniste. Chissà perché, c’è penuria di batterista, se no potrebbero formarsi diversi gruppi di sole donne. Poche però, a parte la Scascitelli, hanno la grinta d’una Barbara Thompson o la cultura d’una Carla Bley.
L’avanguardia sembrava svanita nel nulla, ma riaffiora quando non te l’aspetti. In Strutture di supporto, con Joseph al piano e Colombo al sax, già si aprono interessanti spazi di ricerca timbrica e armonica. Da qualche tempo segna il passo invece il lirico ma provocatorio Mazzon (tromba). Specie al nord poi i collettivi dal nome austero e burocratico (vanno di moda quelli del tipo di “Organico di musica creativa e improvvisata” del bravo Rusconi) lasciando intendere di aver fatto lunghi soggiorni a Darmstadt, hanno imparato a contestare la parola, non la musica, “jazz” da Shepp, teorico della musica libera al tempo in cui andava di moda il “dashiki”, la colorata tunica africana. Ora però Shepp veste sempre in cravatta e doppiopetto fumé, e per di più cita Ellington.
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Destra e sinistra in un mondo di note
Anche per i jazzisti, da noi, c’è il “sei politico”? Così sembra, a leggere le recensioni, ottimistiche e spesso incensatorie, dei concerti e dei festival. La stroncatura, poi, è sempre più rara, forse perché la critica, per motivi che sarebbe scomodo ricordare, è più attenta alle intenzioni dei musicisti che alla loro musica. Una nota di colore, tipica del jazz italiano, è infatti la “dichiarazione d’intenti” che il musicista, impegnato o no, proclama dal palco prima del concerto, per spiegare (caso mai le note non fossero sufficienti) “da che parte sta”.

Si verificano perciò situazioni paradossali. Il jazzista di sinistra conclamata che finisce, a furia di recuperi del folk, per fare una musichetta banale e orecchiabile, e quindi linguisticamente “di destra” (per esempio il Trio Liguori e qualche gruppo di “blues” paesano, tipo Treves Band). Oppure il disimpegnato, ritenuto a torto qualunquista, che propone un jazz d’avanguardia problematico e ricco di spessore, e quindi linguisticamente “di sinistra” (Schiaffini, Joseph ecc.). Sono, però, casi eccezionali.

Di solito l’ideologia musicale del jazzista italiano corrisponde al jazz realmente prodotto. Tanto che uno studioso del linguaggio, un Umberto Eco in vena di “divertimenti intelligenti”, potrebbe arrischiare una mappa politico-musicale semi-seria, un parlamentino ideale del jazz nostrano, con tanto di sinistra, centro e destra, extraparlamentari e, perché no, autonomi.

Il gioco non sarebbe difficile. Patruno, Loffredo, la Roman e la Bovisa, nostalgici che credono nei “valori” del dixieland, li mettiamo all’estrema destra. Al centro-destra il jazz di Rosa: conservatore ma con garbo ed eleganza. Tra i tecnocrati e confindustriali Basso, G. Tommaso, Piana ecc.: strumentisti efficienti legatissimi al “sistema”. Al centro-sinistra Intra, Giammarco, Pierannunzi, Sax Machine, Vittorini ecc.: un nuovo linguaggio purché tutto resti come prima. E alla sinistra storica? Ma Gaslini, Schiano, B. Tommaso, diamine: il recupero popolare e i legami con le masse. Tra gli extraparlamentari Rusconi, Trovesi, Centazzo, Colombo e compagni: sempre in cerca di formule nuove, arrischiate. Tra gli “indiani” e i radicali Urbani, Scascitelli e Della Grotta, e giù giù fino ai nuovissimi: “diversi”, caratteriali, imprevedibili.

Ma il divertissement intellettuale durerebbe poco. Chi ci assicura che il jazzista contestatore di oggi, conquistato il suo pubblico, pubblicato il suo disco e ritagliatosi il suo mercato, non diventi un jazzista conformista domani?

NICO VALERIO

P.S. L’inchiesta si concludeva con due appendici, allora molto importanti, sul “turismo jazzistico”: Dove ascoltarlo (cioè i club, regione per regione) e Dove impararlo (scuole e seminari, regione per regione). Oggi sarebbero di nessun interesse: nomi, riferimenti, indirizzi e telefoni sono tutti cambiati.

IMMAGINI. Non riproduco, ovviamente, le immagini aggiunte dalla redazione della Repubblica, irriproducibili.


AGGIORNATO IL 21 NOVEMBRE 2014

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1 Comments:

Blogger Nico Valerio said...

Ricordo che qualche musicista protestò (si sa che gli artisti non hanno il minimo senso dell'humour, quando satira o umorismo li toccano), perché nel paradosso scherzoso del "parlamentino jazz" lo avevo messo a Destra o a Sinistra. Come l'amico Lino Patruno, p.es., che è ancora convinto di essere stato preso di mira da tutti, non capito o discriminato, perfino da me (vedi su http://www.jazzitalia.net/articoli/ji_linopatruno.asp#.VGeFMDSG9DQ
Quando invece io ero, credo, l'unico critico jazz in Italia ad amare anche il jazz antico, Bix, Chicago, New Orleans, che piacciono a Patruno. E poi prendevo in giro bonariamente tutti i musicisti: ditemi se non era anche pubblicità....:-)

15 novembre 2014 alle ore 18:15  

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