25 aprile 2014

VITTIME della Croce. Papi fatti santi a furor di popolo e per ragion di Stato.

Croce di Job a Cevo (U.Battista) Noi illuministi ridiamo delle tante strane coincidenze che il Caso ci offre, e non crediamo ai presagi, ai sogni e ai segni premonitori. Superstizioni, le definiamo. Ma i religionari e gli spiritualisti dovrebbero crederci. E allora, come la mettono col fatto che, proprio due giorni prima della tanto strombazzata duplice santificazione dei papi Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II (“evento mediatico mondiale”, i cui altissimi costi la Chiesa scarica, col solito cinismo indifferente, sull’Italia e su Roma), un’enorme quanto discutibile croce ricurva dedicata a papa Giovanni Paolo, posta in dispregio della legge che tutela Parchi e Paesaggio in pieno Parco dell’Adamello (diciamolo: brutta e di cattivo gusto, e deve averlo pensato anche il Vescovo, se l’ha fatta togliere da Brescia e relegare su quel dosso sperduto), crolla all’improvviso e uccide un ragazzo, ma non uno qualunque, si badi, bensì un giovane dell’Oratorio in escursione con altri fedeli “ultrà del Catechismo” parrocchiale, per di più abitante in una via intitolata al papa Giovanni XXIII? Roba da far impazzire i giocatori del lotto a Napoli.

“Side effects”, danni collaterali della religione? Noi atei commentiamo cinicamente che la tragedia appare “tutta interna alla Chiesa”. Una specie di curioso regolamento di conti da prete a prete, anzi, da Divinità a credente. Ma i tanti esoterici e scaramantici, che sicuramente si troveranno tra le tonache nere o rosse delle alte gerarchie della Chiesa, saranno terrorizzati.

E la Croce, poi... Un simbolo forte in questa inquietante serie di coincidenze piene di simboli. Siamo certamente i più duri critici in Italia dell’arrogante e deturpante moda di “segnare il territorio” delle montagne con croci, da parte di parroci, popolani, confraternite, dopolavori, militari del corpo degli alpini, e perfino iscritti al Club Alpino che non hanno capito nulla né di Natura, né di montagna, né di libertà religiosa, né di tolleranza. Come se la montagna fosse terreno privato, e se la Croce, anziché testimonianza rispettabile e discreta d’una credenza religiosa individuale, fosse uno sfacciato logo pubblicitario, usabile senza pudore all’esterno – dove la Natura è più fragile e indifesa – come mezzo di bassa propaganda psicologica tra le anime afflitte e di scarso comprendonio (l’hanno detto loro, che Gesù è dei “poveri di spirito”).

E perché poi sulle vette o comunque in montagna? Perché la pubblicità sia più “visibile” dal largo pubblico e mostri che un ulteriore territorio, nella spregiudicata guerra di “conquista delle anime”, è stato conquistato al nemico. Ma anche come – non dicano di no – luogo eletto per eccellenza, perché elevato. Ma sì, altezza è mezza bellezza, anche per la Chiesa: le cupole, inutili se non per essere viste da lontano e richiamare fedeli, i conventi abbarbicati sulle alture, le croci sulle vette. Occupare le posizioni più elevate, dicono i generali. E poi è come se una vetta fosse “più vicina al cielo e quindi a Dio”, e se la Terra – ovvio – non girasse. Perché si sa tra i semplici e sottoculturali del Medioevo che il buono e il santo stanno in “alto”, nel Paradiso, mentre il cattivo e il diabolico stanno in “basso”, negli abissi dell’Ade, nell’Inferno.

Ma poi, perché giudicare gli eventi straordinari con due pesi e due misure? Immaginiamo che il povero ragazzo morto sotto il peso della Croce (e senza neanche risorgere al terzo giorno, direbbe un comico da tv), con quel po’ po’ di coincidenze che si portava appresso, dopo averla toccata fosse guarito all’improvviso da un male incurabile. Non sarebbe stato considerato dalle Autorità della Chiesa un “miracolato”? Eccome. E allora, perché non valutare oggi il crollo della croce e la morte del giovane come un “segno negativo di Dio”? Per usare argomentazioni e linguaggio cari ai cattolici, se i due papi sono fatti santi per eventi straordinari positivi (i “miracoli”) che a detta di persone semplici e ingenue avrebbero “compiuto”, questa drammatica coincidenza non è forse un altrettale evento straordinario, sia pure negativo” di analoga portata, insomma, una sorta di “miracolo negativo”, per di più accaduto sotto gli occhi di tutti e incontrovertibile? E se un miracolo parlerebbe della volontà di Dio a favore del possibile santo (“prova a favore”), questo evento così mirato e negativo, per di più dal duplice e preciso collegamento (addirittura ridondante, come a sottolineare con forza), non dovrebbe significare – se crediamo negli spiriti e nella volontà di Dio che si spande dappertutto – che stavolta la divinità stessa è come minimo sfavorevole (“prova contraria”)?

Però siamo ammirati da cotanta potenza ironica del Caso. Sembra quasi che Dio, ammesso e non concesso che esista, sia un ateista sfegatato, un supremo attentatore, il primo degli infiltrati, il più insospettabile. Stavolta in un colpo solo ha colpito direttamente o indirettamente quattro entità cattoliche: la Croce, i fedeli ultrà, e ben due Papi.

Papi che, oltretutto, sono fatti santi un po’ troppo sbrigativamente e immeritatamente (New York Times, ripreso da Huffington Post, L’Espresso). Del resto, perfino Pio IX, il Papa che dopo una incerta e timida apertura condannò duramente il nostro Risorgimento, inviando truppe a reprimere nel sangue i moti di libertà più non-violenti della Storia, è stato fatto Beato. Una vera provocazione. Non noi, ma un prete, don Paolo Farinella su MicroMega, ricorda che il suo nome è legato al caso Mortara (il bambino ebreo battezzato e convertito a forza)*, al Sillabo, e alla esecuzione di qualche detenuto politico che combatteva contro il “Papa Re”.  L’intelligente Paolo VI, invece, ricordiamo noi, sosteneva che la fine del potere temporale dei Papi, insomma Porta Pia, è stato un bene per la Chiesa: l’ha costretta a essere un po’ più spirituale.

E perché, poi, Wojtyla e Roncalli fatti santi insieme? E’ un “enorme ossimoro”, cioè una contraddizione atroce, scrive Farinella nel medesimo articolo. A ben ricordare la loro vita da pontefici, sostiene, dovrebbero essere incompatibili tra loro. “Avremmo preferito – prosegue dopo molte acute osservazioni – che papa Francesco avesse avuto il coraggio di sospendere questa sceneggiata, ma se non l’ha fatto, è segno che si rende conto che la lotta dentro le mura leonine è solo all’inizio, e lui, da vecchio gesuita, è determinato, ma è anche cauto e prudente”.

“Miracoli”? Ma in questi casi, se è la Chiesa a trovarvi l’utile, l’azione parte dalla gente semplice ed esaltata, dai “fedeli”, come già scrivemmo sul Salon Voltaire, criticando la moda mass-mediatica e il presenzialismo “da evento” provocati dalla sapiente teatralità di Giovanni Paolo II che in gioventù era stato perfino attore. Proprio alla Croce malferma e cadente di Wojtyla, ormai malato, ostentata senza pudore nella sua ultima processione del Venerdi Santo, l’artista Job si era evidentemente ispirato nella sua croce monumentale che è crollata a Cevo. Ricordiamo tutti ai funerali di Wojtyla il famigerato “Santo subito” dei turisti e dei “Papa boys”, eccitati come davanti a un cantante rock. E per decidere chi fare Santo la “devozione” popolare è ancora fondamentale per la Chiesa – ha risposto un teologo al conduttore  Loquenzi che sollevava il problema (Radio-Rai, Zapping, 24 aprile). Con la solita scusa dello Spirito Santo e del carisma (“grazia” o dono speciale che si riceve da Dio e che si trasmette agli altri, secondo la Chiesa: in parole povere la capacità di sedurre gli altri). Figuriamoci, poi, se tra tanti sedotti e suggestionati non si grida al miracolo, che oggi è quasi sempre di argomento medico – tipica la solita “guarigione inspiegabile”, che fa più presa nel pubblico – come quella di una certa Floribeth del Costa Rica, “guarita da un aneurisma”. Che ora, ovviamente, fa la viaggiatrice propagandista a tempo pieno per spiegare ai Popoli quanto la Fede sia non solo bella, ma anche utile.

La Chiesa è diventata una “fabbrica dei santi”?, si chiede il liberale cattolico Livio Ghersi sul notiziario di FCL (Fond. Critica Liberale, 28 apr. 2014). Quel che è certo, anche dal punto di vista d’un cattolico, è che “la moneta inflazionata si svaluta”. Insomma, “proclamare troppi santi non significa rendere un buon servizio alla causa stessa della santità”. “C'è poi qualcosa di stridente nel fatto che un Papa proclami santi altri Papi suoi predecessori; pensando male, si potrebbe interpretare questa scelta come espressione dell'aspettativa che, in prosieguo di tempo, altri Papi si comportino nello stesso modo con lui”. In realtà un Papa, che “dovrebbe essere fondamentalmente un'autorità spirituale, esercita un ruolo che è anche politico”. E allora, “la smania di fare santo Papa Wojtyla (...) ha qualcosa a che vedere con la caduta del muro di Berlino, la dissoluzione dell'Unione Sovietica, ossia la storica sconfitta del comunismo realizzato?”

Ma poi, perché fare “santi” due papi, due “addetti ai lavori”, per i quali “fare il bene” è un normale dovere professionale, come per preti, suore, poliziotti, vigili del fuoco, medici, infermieri, e in fondo chiunque? E poi che cosa avranno mai fatto di speciale, insomma di “eroico”?  «D’accordo, saranno andati fra la gente, si sono espressi e indignati contro il lusso e gli sprechi, hanno baciato i bambini e gli oppressi, hanno visitato i carcerati, ecc. Ma non è niente di speciale per un Papa. E’ normale che un Papa sia così. Lo è anche il nostro Bergoglio! Capisco che non possa essere santo il Borgia, ma questi due non hanno fatto altro che la loro professione e il loro dovere di Papa» (Agnese De Donato, esperta di comunicazione, per anni ufficio stampa e pubbliche relazioni di eventi culturali, su Facebook).

Anzi, forse proprio un Papa, per le cose che fa o non fa come capo della Chiesa, dovrebbe in teoria avere meno possibilità di essere santo. “I papi, quali che siano le loro intenzioni, sono comunque i capi di questa organizzazione che, per sopravvivere e prosperare, si è spesso piegata alla logica spietata del potere. Ritengo, quindi, impossibile o quasi che un papa (anche quello più animato da semplice zelo pastorale) possa diventare santo. Mi pare che Albino Luciani (Giovanni Paolo I) abbia detto una volta che se da semplice prete sperava di poter meritare il Paradiso, da vescovo aveva cominciato a dubitarne, e infine, nominato papa, temeva grandemente per la sua salvezza” (Paolo Bonetti, commento all’articolo citato su FCL).

“Perché Wojtyla non è un santo” ce lo ha spiegato con dovizia di argomentazioni, tutte interne alla teologia e alla sensibilità della Chiesa, il prestigioso teologo domenicano Dom Franzoni nel libro “Karol Wojtyla, il grande oscurantista”, ed. MicroMega. Franzoni che con un grado pari a vescovo partecipò al Concilio Vaticano II, era stato chiamato a dare il suo parere nel Processo di Santificazione di papa Giovanni Paolo II. Nel medesimo libro è riportata anche la testimonianza contraria al Papa polacco del teologo tedesco Hans Kung (“Wojtyla santo subito? Il caso Maciel e altre ombre”).

Si fabbricano Santi a furor di popolo, dunque. Ma anche per ragion di Stato. Laddove lo Stato è quello del Vaticano. E la ragione, si fa per dire, è quella di motivare di nuovo i fedeli, propagandare presunti miracoli, far dimenticare scandali, prepotenze e preti pedofili, far entrare soldi, tanti soldi, con turismo di massa e donazioni, riempire chiese, seminari e conventi. sempre più vuoti, insomma rialzare le sorti calanti del Cattolicesimo.

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(*) A metà dell’Ottocento, il “caso Mortara” contribuì in modo definitivo al discredito morale della Chiesa di Roma in tutta l’Europa liberale. Il bambino ebreo Edgardo Mortara era stato sottratto alla famiglia dalle autorità dello Stato Pontificio all’età di sette anni, nel 1850, e costretto alla conversione forzata al cattolicesimo, solo perché una cameriera fanatica lo aveva, a suo dire, “battezzato” con l’acqua di un secchio. E il papa d’allora, Pio IX, oggi addirittura fatto “Beato”, non poteva non sapere: ebbe un ruolo fondamentale nell’operazione.

IMMAGINE. La discutibile Croce ricurva e cadente (e alla fine è caduta) di Cristo Redentore dedicata a papa Wojtyla realizzata dall’artista Job. Dapprima installata a Brescia, poi relegata sul disabitato dosso di Cevo, in pieno Parco dell’Adamello, per ordine del vescovo (bella foto di Umberto Battista).

JAZZ. Il sassofonista tenore Coleman Hawkins col suo quintetto in Sweetnin. La formazione era la seguente: Coleman Hawkins (ts), Ray Bryant (p), Kenny Burrell (g), Wendell Marshall (b), Osie Johnson (d). Hackensack, NJ., November 7, 1958.

AGGIORNATO IL 29 MAGGIO 2014

10 aprile 2014

COSTUME. Gli Inglesi ci sbeffeggiano. Per il nostro bene. O è rivalsa millenaria?

Berlusconi gioco Guardian che pena dargli 2014 Gli Inglesi, forse per riconoscenza, ma anche per rivalsa, sembrerebbe, avendoli noi in tempi antichi sottratti alla rozza vita nelle capanne e alloggiati in palazzi di pietra e marmo, come andava recriminando Mussolini quando se la prendeva con la “perfida Albione”, hanno verso gli Italiani un atteggiamento paternalistico e pedagogico. Diciamo che si prendono molta, troppa confidenza. Perché, si sa, loro, gli anglosassoni, hanno sempre ragione, sono come un popolo superiore, improvvisamente diventato “civile”, civilissimo, il modello di civiltà.

Già nell'800 ci osservavano per "migliorarci", e infatti criticavano giustamente le ignobili carceri dei Borboni. Perfino gli aristocratici siciliani scappavano a Londra, per sfuggire alle ottuse prepotenze del Regno delle Due Sicilie (*). Già allora era “per il nostro bene”, apparentemente, com’è tipico del complesso di superiorità delle democrazie anglosassoni. Ed effettivamente, le loro navi, ormeggiate davanti a Napoli e a Palermo, e i fondi raccolti in Gran Bretagna tra le comunità ebraiche, protestanti e massoniche, furono fondamentali per la spedizione dei Mille, per la caduta d’un regno corrotto, ottuso e crudele, per la nostra indipendenza e Unità. Senza contare che lì, nel Regno Unito, andava ad aggiornarsi il nostro grande Cavour, o andava a rifugiarsi il nostro Mazzini, dopo aver mandato allo sbaraglio in rivolte impossibili chissà quanti giovani, o andava a pavoneggiarsi davanti alla Regina Vittoria il nostro Garibaldi. Sempre lì si andava a sbattere, perché gli Inglesi, già allora, si facevano molto i fatti nostri. Del che li ringraziamo molto. Però sorvolavano da buoni nazionalisti patriottici sulla loro storia sanguinosa piena di delitti e intrighi (ma è perché Shakespeare doveva essere italiano, ovvio…), sul fanatismo religioso, sulle idee schiavistiche che perfino i loro politici liberali avevano (a differenza dei nostri ignoranti e reazionari pescatori e contadini).

Poi, certo, noi Italiani della decadenza – quanto diversi dagli antichi Romani – non bastando l’abiezione di aver perso il senso della Patria e l’essersi abituati vilmente alla schiavitù con l’utilitarismo opportunistico del contadino (“O Franza o Spagna, purché se magna”), non bastando il teatrino da strada, le maschere Arlecchino e Pulcinella e l'Opera buffa, abbiamo insistito ad avvalorare anche in politica lo stereotipo dell'Italiano buffone, tracotante e autoritario senza essere autorevole: Mussolini, l’Uomo Qualunque, la Lega Nord, il Berlusconismo e ora il Grillismo.

Berlusconi quale pena gioco Guardian 2014Movimenti con a capo personaggi inaffidabili, da farsa paesana, che mai sarebbero concepibili per l’opinione pubblica e i giornalisti inglesi. Che c'entrano i giornalisti? Sono loro in Italia ad aver alimentato per fare ascolto (giornali e tv, soprattutto i talk show) i nostri populismi di protesta. Perché i giornalisti italiani, si sa, non hanno mai saputo fare il loro mestiere, che è soprattutto culturale ed educativo. Proni verso la Politica, non sanno scegliere le notizie in modo autonomo e originale, ma dipendono sempre dalle dichiarazioni dei politici, dal pettegolezzo, dalle “voci”, dai commenti di questo e di quello. Tantomeno sanno porsi il problema delle conseguenze di una notizia su una popolazione incolta, becera e priva di buonsenso come quella italiana, che non è certamente quella inglese.

Così, oggi, declinando finalmente la stella berlusconiana, dobbiamo sopportare che gli Inglesi – ancora una volta – prendano troppa confidenza con noi atteggiandosi a fratelli maggiori e più sensati, mettendoci alla berlina, secondo i loro vecchi stereotipi, dopo averci per vent’anni dipinto non solo come il popolo della Mafia, ma anche come elettori di Berlusconi. Ricordiamo ancora le copertine e le inchieste del settimanale economico inglese The Economist.

Ma perché un grigio commerciante di Glasgow, incapace di fantasia e versatilità, si può permettere di giudicare l’avvocato o l’ingegnere di Napoli, magari intrallazzone e con la solita corte di amici compiacenti, ma sicuramente più brillante e fantasioso? Il primo motivo è quel mediocre misto di buonsenso individuale e senso comune collettivo che rappresenta la vera, profonda, anima inglese.  Sarà pure terra-terra, ma questo elementare senso civico diffuso loro ce l’hanno e noi no.

Certo, il nostro stereotipo fa tanto comodo al banale Homo britannicus. Uno scrittore inglese amante di paradossi scriverebbe che noi Italiani siamo quelli che gli Inglesi vorrebbero essere, se non avessero una volta per tutte scelto di “non essere mai se stessi fino in fondo” (se non after hours, nel week end, dopo una bevuta, in toilette o in camera da letto). Ma dal lunedi al venerdi appaiono in pubblico, devono apparire, se non del tutto irreprensibili almeno un minimo “socialmente corretti”. E’ fondamentale, paradossalmente, l’individuazione di “quel minimo”, proprio nella individualistica società liberale.

Berlusconi quale pena dargli gioco Guardian 2014Perché proprio nella liberal-democrazia di massa, si sa (e loro lo sanno, noi no), si è, si appare, si lavora “per gli altri”. Se tutti fanno questo, la società liberale funziona egregiamente, perché si basa sull’esile filo che collega le libertà individuali tra loro: non danneggiare il prossimo. Di qui un discreto “controllo sociale”. Eh, ma che vita, direte voi: sempre a osservare in tralice gli altri, facendo finta di non vederli neanche. Sempre controllati dagli altri. Ma questa non è vita, è una dittatura del controllo sociale più dura del Comunismo o del socialismo scandinavo degli anni 50.

No, invece, non è stressante perché, a differenza di quello imposto dalle dittature, è un metodo scelto liberamente dai cittadini con una specie di patto sociale. Io mi limito un poco, quel tanto che basta, tu fai altrettanto, gli altri idem, ed ecco che siamo tutti più liberi, e tutto funziona. Così si vive un poco controllando, senza darlo a vedere, con la coda dell’occhio, se anche gli altri concittadini fanno o no il loro dovere minimo: se rispettano i diritti degli altri, se non travalicano nel soddisfacimento dei propri diritti, se per caso ostacolano gli altri o no.

Se invece come in Italia, specie al Sud, tutti vogliono “essere davvero se stessi” senza limiti o remore, spontanei, “naturali” come appena arrivati dalla savana di 3 milioni di anni fa, fare di testa loro come se gli altri non esistessero, che poi significa imporre il proprio debordante ego sugli altri, insomma comportarsi da fantasiose e anarchiche prime donne, nulla funziona e il mito della “fantasia latina” va a farsi benedire: è un eufemismo per egoismo e prepotenza. E così, sopraffazioni, pazzie, comportamenti imprevedibili, ingiustizie, illegalità, raccomandazioni e corruzione imperversano. Ecco, quindi, che il tipico Homo italicus, il solito “istrione italiano” e ora anche il simpatico “buffone populista” non fanno né la felicità né il bene del popolo.

Berlusconi, quale pena fargli scontare. Gioco su Guardian 2014Queste cosette i grigi bottegai della perfida Albione le sanno benissimo. Non saranno brillanti e salottieri come noi, ma colà giustamente, sia pure raso terra, è il buonsenso, la Ragione che regna, il “neu nimis”, il mai troppo (il famoso limite liberale). Ecco, perciò, che il ricordarsi che esistono, così vicini a loro, intere popolazioni di gente che fa tutto il contrario, cioè butta cartacce sulla strada, che raccomanda ed è raccomandata, che spende allegramente i soldi degli altri, che aggira le norme o consente di aggirarle, che imbroglia a tutto spiano, insomma che vive come i selvaggi dell’India prima che arrivassero a civilizzarli i Romani moderni, cioè gli Inglesi, è cosa che preoccupa, certo, ma anche, paradossalmente, li rassicura sulla loro diversità.

Ecco da dove viene il giustificato complesso di superiorità britannico. Del resto, siamo giusti, non si vede perché i sacrifici dei “limiti” liberali sopra detti li debbano fare solo loro. Anche a loro, ogni tanto piacerebbe fare i matti e i Pulcinella. Solo che certi popoli il Carnevale lo fanno sempre, tutto l’anno, e pretendono pure di essere presi sul serio, di essere trattati come gli Inglesi. E no.

Ecco perché gli Inglesi ci bacchettano, ancora una volta, e “si fanno i fatti nostri”. Perché in realtà si fanno i fatti loro. Lo fanno non per noi, ma per denotare il distacco incolmabile tra sé e gli altri, e ricordare a se stessi la propria diversità. Per tornare al nostro titolo, non ci sbeffeggiano per una rivalsa millenaria, né “per il nostro bene”, ma un poco nello stile dei Romani antichi che criticavano gli altri popoli senza coraggio e senza libertà, per rafforzarsi a contrario, grazie all’esempio negativo, nelle proprie virtù civili.

L’ultima frustata di scherno ce la dà l’austero quotidiano liberal-progressista The Guardian, a proposito della sentenza alternativa comminata a Berlusconi. Poco abituato alle vignette satiriche, si è inventato un umoristico giochino infantile a base di figurine sovrapponibili: che punizione (cioè quale divisa o vestito) diamo al reo Silvio? Oggetto reale della satira è lo stesso popolo italiano, tutto preso dal tormentone berlusconiano. Soggiogato da 20 anni, sia i pro, sia i contro, senza riuscire a scrollarselo di dosso. Cosa che agli Inglesi sarebbe riuscita in un mesetto scarso. Tanto per cominciare, i giornalisti inglesi non gli avrebbero dato alcuno spazio.

Buttarla a ridere è quello che si fa quando ci si sente superiori. Noi Italiani siamo notoriamente provinciali, cioè xenofili: basta vedere nei decenni l’uso improprio ed esagerato di parole inglesi, non solo nelle insegne dei negozi, ma anche nella vita quotidiana (vi ricordare lo smoking, anche quello dei non fumatori?), in politica o economia (ticket, spending review, spread, ecc.). Perciò non avemmo il coraggio di fare tanto gli spiritosi in occasione di scandali che mettevano in mostra il malcostume inglese, come il caso Profumo, il conservatorismo della Camera Alta, l’ottuso isolazionismo anti-europeo dei Governi di S. M. Britannica, le gaffes del principe Filippo, le inchieste sulla morte della principessa Diana e i disastri delle grandi banche e istituti di trading finanziario d’Inghilterra che hanno diffuso la crisi dappertutto. Ora, però dobbiamo ridere di noi, soltanto di noi. E cercare, non con le insegne, le scarpe, i soprabiti o le parole (cose in cui siamo bravissimi), ma con la mentalità e gli atti pratici, di diventare un poco inglesi. Non è possibile che i Britannici siano molto più Romani di noi!

(*) Si legga riguardo alla corruzione, ai privilegi, alla mancanza di libertà nel Regno delle Due Sicilie, e alla crudele ottusità dei Borboni, la bella e avventurosa autobiografia d'un singolare aristocratico siciliano, che consiglio di leggere (Michele Palmieri di Miccichè, Pensieri e ricordi storici e contemporanei, Sellerio ed).

IMMAGINI. Il quotidiano britannico The Guardian ha pensato bene di rallegrare i suoi lettori invitandoli, in attesa delle decisioni del Tribunale di Milano, al singolare giochino: quale pena proponi per Berlusconi? I lettori dovranno ritagliare, come i bambini nell’800, le figurine e sovrapporle al Berlusconi in mutande. C’è il galeotto condannato ai lavori forzati, il giardiniere in stivali, cappello e vanga, il classico clown da circo, e la comoda divisa casalinga (il gatto) che assomiglia un po’ a un pigiama e un po’ alla tuta di operaio.

JAZZ. Un ottimo jazz cool è esistito in Italia, specialmente nelle musiche da composizione o da film, come certe colonne sonore di Piero Umiliani, Piero Piccioni o Armando Trovajoli. Ecco un nitido esempio di brano di ispirazione cool, probabilmente scritto per un film da Sandro Brugnolini. Si tratta di Angel e fu inciso nel 1960. I musicisti sono: Cicci Santucci (tp), Sandro Brugnolini (as), Alberto Collatina (tb) Enzo Scoppa (ts), Cario Metallo (bs), Puccio Sboto (vib) Leo Cancelleri (p), Sergio Biseo (b), Roberto Podio (ds).

AGGIORNATO IL 19 APRILE 2014