29 luglio 2014

GASLINI. Pianista jazz, anzi, musicista completo. E uomo di grande personalità.

Giorgio Gaslini al piano.(media) Gaslini parlava, eccome, anche “sopra” la sua musica. Era tutto il contrario del solito musicista impacciato che quando apre bocca è un disastro, perché è la sua musica a “parlare” per lui, e perciò sembra che non sappia neanche quello che fa, e perfino i silenzi e le frasi banali, fumose o magniloquenti appaiono una conferma della sua genialità di uomo “diverso”, inadatto a vivere tra comuni mortali. Ecco, visto in una pellicola negativa, quello che non era Giorgio Gaslini.

Non è stato solo un musicista completo che ha superato i confini di genere (“totale” aveva chiamato la sua musica) scrivendo o eseguendo jazz, musica colta europea e perfino brani di origine popolare e folclorica, ma era soprattutto un uomo ben radicato nella sua terra e nel suo tempo, perfino troppo – gli fu rimproverato – visto che era presente con un incredibile tempismo (“opportunismo” dissero gli avversari) a ogni movimento sociale e di protesta, dal maggio 1968 degli studenti in poi. Ma uno che sapeva non soltanto pensare la propria musica, ma anche spiegarla a se stesso e agli altri. In questo, anzi, fu un grande divulgatore e didatta. Dell’insegnante bravo aveva la stoffa. Del resto sembrava fatto apposta per tirar fuori maieuticamente il buono che c’era nei suoi giovani allievi. Fu così che scoprì e lanciò il giovanissimo sassofonista romano Massimo Urbani (un “Parker di borgata” lo definimmo), ma anche la pianista Patrizia Scascitelli e tanti altri.

Fu sempre un intellettuale-artista, a tempo pieno, un “ideologo” della musica, un “filosofo”. Non con la testa in aria, ma con i piedi ben piantati per terra, un che sapeva non solo ciò che faceva, ma lo sapeva, e sapeva descriverlo bene, prima ancora di farlo.

Narcisista, egocentrico? Diciamo, un uomo che si conosceva bene, con i propri pregi e difetti, un musicista che amava avere successo e cavalcare le mode e il consenso dei giovani. Ma in un mondo di banali imitatori, qual è spesso quello del business musicale nella società di massa, e in anni in cui non pochi jazzisti per avere applausi alzavano il pugno chiuso alla fine d’un brano suonato malissimo, Gaslini almeno era un egregio musicista, anche sul piano formale, e se per carattere “amava piacere” e non era così anticonformista da mettersi contro le aspettative del suo pubblico “alternativo” (famosi i titoli accattivanti delle sue composizioni), era comunque fiero della propria complessità intellettuale fatta di idee musicali e sfumature personali che molti suoi colleghi si sognavano.

Presentando una mia intervista con Gaslini in una grande inchiesta sul jazz per la Fiera Letteraria, così scrivevo: “Eclettico fino all'ubi­quità musicale – è una sua felice invenzione la formula della «musica totale», del tutto indipendente dai tradizionali « generi » – è con­siderato un po' il demiurgo del jazz italiano anche per una sua riconosciuta tendenza al­l'egocentrismo. Ha al suo attivo incisioni da antologia come «Nuovi Sentimenti» con Don Cherry e Gato Barbieri, colonne sonore di suc­cesso come «La notte» dell'omonimo film di Antonioni, originali suites come «Oltre», «Africa», «Message» e varie composizioni liriche e strumentali, di cui una («Opus» per flauto solo) scritta per Gazzelloni”.

«Da neo-rinascimentale quale sono – disse a Enrico Cogno che lo intervistava per il suo Jazz Inchiesta – ritengo indispensabile affermare che il musicista d’oggi (ma soprattutto quello dei prossimi anni) deve essere un individuo al quale si possa chiedere sia un concerto di jazz, sia un brano di musica elettronica, o un balletto, o un’opera. Non è più accettabile lo specialismo, perché è il risultato di una visione settoriale dell’uomo, incompleta, non totale. E’ un frammentarismo sciocco di nascita centro-europea». Così parlò Gaslini, un Demiurgo sempre diviso in due, in tre, in quattro.

E non “scelse” mai. Restò sempre sospeso tra quelle due culture – il jazz e la musica europea – su cui anche il critico classico Giulio Confalonieri aveva scritto parole imprevedibili dopo la rivelazione del concerto di Duke Ellington al Lirico di Milano nel 1949. Così, di entrambe si teneva il meglio: l’ordine e il disordine, la fantasia e il ritmo, l’armonia e l’improvvisazione. Già, proprio quell’improvvisazione, e perfino quel ritmo, che la musica europea in tanti anni fossilizzanti di accademia mostrava di aver perduto, tradendo innanzitutto se stessa, come ammetteva non solo Gaslini, ma anche Confalonieri.

Così l’insaziabile Gaslini tutto volle assaggiare del jazz, soprattutto, e della musica “classica”. A proposito, con quale ironia faceva cadere queste virgolette, lui che ovviamente aveva trovato il tempo anche per diplomarsi al Conservatorio di Milano in pianoforte, composizione e direzione d’orchestra! E così scrisse, diresse e suonò in tutte le forme e i formati, dai suoi piccoli gruppi al solismo pianistico da concerto, dalla composizione pura – in entrambe le musiche – alle numerose colonne sonore per il cinema (anche per La Notte di Antonioni), fino ai gruppi sperimentali (ne ricordiamo uno con Bedori al sax alto e Tonani alla batteria) e alle colorite big band, per le quali magari utilizzava in modo magistrale i giovani dei corsi di jazz nei Conservatori, “apertura” che l’Accademia deve proprio a lui.

Bella e colta (per intervistare Gaslini ci voleva cultura) la conversazione con Antonio Gnoli di Repubblica, probabilmente l’ultima importante intervista prima della sua scomparsa, avvenuta ieri a 84 anni di età.

A me piace invece riproporre qui di seguito il primo dei miei articoli su Gaslini, quello che scrissi da giovane sul bellissimo settimanale Il Mondo, nella medesima pagina dove troneggiava la critica musicale del mito Giorgio Vigolo, a me – appassionato belliano – noto soprattutto come il primo sistematore, filologo e critico dei Sonetti del Belli. Potete quindi immaginare con quanta adolescenziale trepidazione cercassi il benestare d’un simile Maestro. Che con mia grande sorpresa ci fu e fu doppio, sia per me («Bravo, ben scritti e acuti i suoi articoli... Continui, continui, non faccia come me, non si perda d’animo!»), sia per il jazz («La musica jazz? Lei si meraviglierà [Vigolo era un noto e temuto critico, cultore di musica romantica e lirica in particolare, NdR], ma le confesso che mi piace o, per meglio dire, una buona parte». Non osai chiedergli, per non metterlo in imbarazzo quale stile, periodo o quali autori facessero parte di quel diplomatico “buona parte”. Ecco l’articolo così come apparve sul Mondo:

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JAZZ

GASLINI IL MAIEUTA

Simbolicamente affidato a un disco il messaggio-sfida che il compositore milanese ha indirizzato ai jazzmen americani

di NICO VALERIO
Il Mondo, 13 settembre 1973

Chissà a quale nuova diabolica invenzione starà lavorando Giorgio Gaslini, chiuso in quel­l'antro magico della sua vil­la in Lombardia. E sarà un'opera di jazz o di musica «dotta» europea, o non piuttosto la colonna sonora di un film? Un interrogativo non retorico, questo, quasi d'obbligo quando si parla del pianista e compositore Gior­gio Gaslini, «enfant prodi­ge» (ormai cresciuto) del jazz italiano, che pare possegga - insieme a Giove e a pochi altri - il dono dell'ubiquità, sia pure solo musicale.

Pervenuto alla musica ne­gro-americana per la via più semplice e spontanea, la mi­lizia nelle piccole formazio­ni da studio, il pianista mi­lanese ha sempre mantenu­to stretti legami con la mu­sica contemporanea europea, affrontando con un'ammire­vole unità interiore quella di­cotomia storica e culturale, prima che musicale, che a parecchi musicisti è apparsa insormontabile. L'intuizione gasliniana di una musica to­tale è suggestiva perché ap­pare culturalmente e biograficamente credibile. Gaslini - si badi - non dice «musica pura, assoluta»: dice musica della totalità, cioè un'espressione sonora che amalgama le molteplici e sovrapposte influenze cultura­li, esperienze musicali, ricer­che fonologiche (sì anche quelle), oltre al dato biogra­fico, alle emozioni, al diver­tissement e ad ogni altro ele­mento ludico e fantastico che abbia colpito l'artista. Musi­ca, insomma, dell'uomo come essere totale che riassume in sé tutto l'accaduto e il pos­sibile.

Insomma, gratti il musici­sta di jazz e scopri il filoso­fo, il rigoroso teorizzatore, anche se garbato e civilissi­mo. Del resto la scuola di Gaslini al corso di jazz te­nuto presso l'Accademia ro­mana di S. Cecilia ha mol­to del filosofico. Già è stato accusato - come un celebre consumatore di cicuta di tan­ti anni fa - di praticare la sottile arte della maieutica con i suoi allievi di conser­vatorio. I suoi giovanissimi scolari hanno sorpreso il pub­blico e la critica jazz per la fresca inventiva della loro musica. Il sedicenne Massi­mo Urbani è forse fin d'ora «il migliore sax alto italiano», ha detto Arrigo Polillo.

Tutore e padre putativo di questa allegra brigata di gio­vani del jazz, Giorgio Gasli­ni ha utilizzato tutte le arti magiche di cui disponeva per comporre, prima per sommi capi sul pentagramma e poi alla consolle del «mixage», un disco-messaggio da invia­re simbolicamente ai jazzmen americani a testimo­nianza del raggiunto grado di maturità ed originalità di questa nuova leva italiana (Message, Giorgio Gasli­ni, double Basf Z-23312 ste­reo). L'amalgama raggiunto tra i musicisti e le sezioni è perfetto, anche se rafforzato artificialmente con accorgi­menti di registrazione (ma questa è appunto opera squi­sitamente compositiva), il feeling costante e appassio­nato, gli azimut di tensione opportunamente alternati a momenti di riflessiva distensione. Gli assoli dello stesso Gaslini al piano, di Rutherford al trombone, di Rava alla tromba (due «guest artists», musicisti ospiti: una tradizione del jazz), di Urbani al sax alto e di Bedori al tenore e al flauto basso, danno profondità e dimen­sione umana ad una musica che per quanto perfettamen­te integrata tra composizio­ne e improvvisazione collettiva poteva risultare piatta o inutilmente dilacerante.

NICO VALERIO  (Il Mondo, 13 settembre 1973).

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JAZZ. Un brano tratto dalla colonna sonora firmata da Giorgio Gaslini per il film La Notte, di M. Antonioni. (G.G. al piano, Eraldo Volontè al sax alto, Alceo Guatelli al contrabbasso, Ettore Ulivelli alla batteria). Il regista non dette nessuna indicazione al povero compositore, dicendo solo poche parole, rimaste famose: «Fà una cosa…. così…»

AGGIORNATO IL 5 AGOSTO 2014

10 luglio 2014

CALCIO e miti di potenza. Se un Paese populista viene sconfitto, meritatamente.

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Il calcio è uno sport sano e divertente solo se praticato. Come tifo, cioè il fanatismo di chi lo segue come un qualsiasi “spettacolo”, da sedentario, senza giocarlo, è una sciocchezza adatta tutt’al più a bambini e adolescenti. Il fatto che una squadra di professionisti super-pagati, e quindi tendente a un rendimento costante, possa casualmente “giocare bene o male”, vincere o perdere, a distanza di pochi giorni, con tutto l’allenamento che fa *, è la prova dell’aleatorietà dei risultati di questo gioco, non rappresentativo del valore dei suoi componenti, ma fondato sul caso, sulla psicologia di gruppo e sull’arbitraggio. Quindi, andrebbe considerato più un gioco-spettacolo che uno sport vero e proprio in cui prevale l’abilità, la condizione fisica e il coordinamento.

Ma con tutto ciò, in molti Paesi il calcio è sacro. La partita è un rito, la propria squadra preferita, soprattutto la Nazionale, un simbolo, un facile simbolo nazionalistico di potenza e prestigio, come un tempo l’esercito. Il caso del Brasile è noto a tutti, da decenni. Un intero grande Paese, vede nel futebol molto più che lo sport nazionale: una vera religione, una medicina, anzi, l’unica droga con cui compensare i propri vecchi complessi d’inferiorità, e alleviare sotto la maschera effimera dell’eterna festa, dell’allegria esibita e del continuo Carnevale la propria frustrazione e depressione di massa, insieme con quella famosa tristezza endemica o struggente nostalgia chiamata saudade.

Figuriamoci che accade quando la Nazionale nel Paese nazionalistico e populista perde, e in modo improvvisamente vergognoso (sempre così imprevedibile il calcio: dalle stelle alle stalle), dopo essere stata a lungo osannata. Ci rendiamo conto dello choc. Dopo aver elevato da decenni la propria squadra (la seleçao) nell’empireo degli Dei, dopo essere stato visto nell’immaginario mondiale come “il Paese del miglior calcio sulla Terra”, dopo aver speso per organizzare il campionato del Mondo (la “Copa”) ben 11 milioni di dollari, con cui avrebbe potuto soccorrere milioni di poveri, a cominciare dal popolo delle baracche (le vergognose favelas), ora il Brasile piange, letteralmente, umiliato da una sconfitta insolita perfino per squadrette di provincia di serie B, battuto dalla Germania col punteggio tennistico, neanche calcistico, di 7-1. Ora è psicodramma collettivo, certo, e un popolo abituato a piangere, a lamentarsi e ad addossare la colpa ad altri Paesi, troverà finalmente in questo “grandissimo disonore”, speriamo, la spinta psicologica per ripensare ai propri valori distorti e al proprio sbagliato modello di vita. I giornalisti sportivi, spesso responsabili di questo grossolano equivoco sociologico, potrebbero anche cambiare lavoro.

E già, perché le contraddizioni in cui si dibatte da sempre il Brasile, che con fatica sta cercando di uscire dal Terzo Mondo, sono atroci. Il calcio con i suoi psicodrammi ne è solo un marker, un reattivo. Povertà umilianti di massa contrapposte alle infinite ricchezze di pochissimi privilegiati e collusi col Potere autoritario, incertezza del diritto, distruzione della Natura, compreso il “polmone verde del Mondo”, l’Amazzonia, inquinamento senza pari delle grandi città, corruzione diffusa, inefficienza come norma. E la finalmente raggiunta “democrazia”, dopo tante vicissitudini, che resta ancora incompiuta, soprattutto per difetto di un’adeguata classe dirigente. Che c’è di meglio del calcio, allora, per tenere a bada lo scontento popolare?

I corrotti regimi totalitari e le pseudo-democrazie populiste, soprattutto ispano-americane, è chiaro che devono illudere e distrarre il popolo, vittima delle più gravi ingiustizie sociali-ecologiche-politiche, perché o è mantenuto a forza o si crogiola nell’ignoranza, con qualche effimera “vittoria”. Contro i tanti avversari. Perché, si sa, non sono la propria infingardaggine e il proprio fatalismo, ma sono gli “altri” (in genere nordici o anglosassoni; un tempo erano gli antichi Romani) che hanno tutte le colpe del loro sottosviluppo morale e civile. Loro sono sempre e solo vittime. Così nascono i nazionalismi: da presunti torti subiti...

Questo accade tipicamente nel calcio, simbolico sport finto, il più nazionalistico, il più fazioso, il più casuale, il meno legato alle vere abilità individuali (tant’è vero che una squadra vince o perde indifferentemente a pochi giorni di distanza; nella scienza direbbero: “test non significativo”).

In realtà il calcio è uno spettacolo circense, vero “oppio dei popoli sottosviluppati”, quelli sedentari del corpo e del cervello. Qualcosa del genere deve aver detto lo scrittore dal calcio Gianni Brera. Ecco perché, stranamente, hanno spesso vinto i campionati del Mondo i Paesi meno democratici. Talvolta perfino le Olimpiadi sono state strumentalizzate dai Regimi. Così è stato con tutto il Sud-America dei dittatori, con la Spagna franchista e il Portogallo salazariano, con l’Italia fascista degli anni Trenta, con la Germania nazista, con la Russia del dittatore Putin e la Grecia imbrogliona che voleva vivere al di sopra dei propri mezzi, grazie ai manipolatori dei bilanci di Stato.

Per raggiungere lo scopo, un corrotto Stato populista (che lesina soldi quando si tratta di case, acquedotti, fognature, scuole, trasporti pubblici, difesa della Natura, cultura, educazione fisica o altri bisogni essenziali dei cittadini), non bada a mezzi. Non solo illude con le favole terzomondiste e il Mito della seleçao invincibile il suo popolo, ma da Stato megalomane che guarda solo al prestigio internazionale e agli introiti della pubblicità costruisce in barba alla povertà diffusa nuovi inutili stadi, nuove strade, nuovi quartieri, approfittando per abbattere nuove fette di foresta pluviale, quando non si lascia andare alla manipolazione della stampa, alla corruzione di squadre avversarie, dirigenti internazionali e arbitri.

Ma talvolta le mistificazioni non bastano e, adiuvanti il Caso e la psicologia di gruppo, i veri arbitri di questo sport fasullo, anche la squadra del Grande Paese Populista perde. Deve perdere. E' giusto che perda. Grazie Germania.

(*) Proprio per gli allenamenti intensi, lo stress e i farmaci, oltre alla fatica fisica delle stesse partite, cioè a causa dei radicali liberi prodotti dal corpo, i calciatori, che hanno in media 25 anni, ne dimostrano spesso 40-45…

AGGIORNATO IL 10 LUGLIO 2014

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JAZZ. The Quintet - The Complete Jazz at Massey Hall [Album: durata 1h 13’12”].
MUSICISTI
. “The Quintet” era costituito dal meglio dei jazzisti che avevano fatto la svolta modernista del be-bop: Dizzy Gillespie, Charlie Parker, Bud Powell, Charles Mingus, e Max Roach. 
BRANI
. Perdido (Juan Tizol, Hans Lengfelder, Ervin M. Drake), Salt Peanuts (Dizzy Gillespie, Kenny Clarke), All the Things You Are (Jerome Kern, Oscar Hammerstein II), 52nd Street Theme (Thelonious Monk), Drum Solo by Max Roach, Cherokee (Noble), Embraceable You (George Gershwin, Ira Gershwin), Hallelujah (Jubilee) (Grey, Robin, Youmans), Sure Thing (Bud Powell), Lullaby of Birdland (Shearing, Weiss), I've Got You Under My Skin (Porter), Wee (Allen's Alley) (Denzil Best), Hot House (Tadd Dameron), A Night in Tunisia (Gillespie, Frank Paparelli).
NOTE
. Il 15 maggio 1953 si tenne, mal organizzato e peggio registrato, un epico concerto dal vivo alla Massey Hall di Toronto da cui scaturì il più importante e famoso album jazz registrato dal vivo, subito visto come un vero classico del jazz moderno. Ogni cultore di jazz e di bebop in particolare dovrebbe averne una copia in archivio, e anzi dovrebbe anche leggere l'origine strana e avventurosa di questo album. Lo registrò il contrabbassista Charles Mingus su un registratore a nastro portatile, ma poi lo riversò, corresse e integrò in una seconda edizione migliorata, perché la prima registrazione era venuta male, tanto che l’inesperto “tecnico del suono” si lamentava di non riuscire a percepire il proprio contrabbasso. Charlie Parker suona qui il suo famigerato sax alto di plastica bianca Grafton, e a causa del suo precedente contratto con l'etichetta Verve di Norman Granz è identificato come “Charlie Chan” nelle note di registrazione della versione iniziale (l’etichetta Debut di Charles Mingus). Fu questa l’ultima riunione di registrazione che vide insieme Parker e Gillespie. Bud Powell con il trio non è al meglio, secondo alcuni, tranne che in Lullaby di Birdland, probabilmente ri-registrato un altro giorno.