18 aprile 2016

CANTO JAZZ. Ugole d’oro o d’ottone? Dal blues o più spesso dalla musica pop.

QUELLE UGOLE D’OTTONE
Il problema «se il canto sia davvero compatibile col jazz o non appartenga piuttosto alla musica leggera» non è stato ancora risolto. Vogliamo parlarne ancora?
NICO VALERIO, MUSICA JAZZ, GIUGNO 1974
Qualche critico si spellava le mani per applaudire la bella cantante Karin Krog, impietosamente e forse ingiustamente fischiata dai ragazzotti urlanti del Palazzo dello sport di Bergamo, nell'ultima sera del festival. Noi eravamo tra questi. Più che giusto, del resto: si trattava di contrastare sportivamente i goliardici « crucifige » di una platea giovanissima e acritica, di neofiti per lo più, proveniente da quella periferia culturale che non sa di avere i propri modelli estetici nei sottoprodotti dell'industria musicale, e in base a questi « giudica e manda ».
Ma quando si passa al discorso critico, anzi quando si cerca una relazione tra un elemento musicale rilevante come il canto e il diagramma storico-stilistico del jazz, la prospettiva cambia; il procedimento rigoroso porta a conclusioni drastiche, impietose
Non è il caso, certo, di annunciare qui «ex cathedra», che l'elemento vocale non appartiene alla corrente centrale della tradizione jazz, o almeno ne è uno dei tanti elementi confluenti o paralleli. Questa è infatti la mia opinione radicata, meditata, più volte confrontata con i fatti e la tradizione. Solo vorrei lanciare in questa sede, come si usa dire, un'amichevole sfida alla critica e ai cultori più accorti del jazz. Mi dimostrino intanto - dati storico-stilistici alla mano e con un'analisi sufficientemente plausibile - il contrario, cioè che l'elemento vocale ha stilisticamente influito sulla maturazione del jazz, invece di esserne stato un modesto e passivo tributario. Da parte mia, non sarò così cattivo critico e così poco gentleman da scaricare sugli eventuali contraddittori l'onere della prova. Mi limito per ora a qualche considerazione che dovrebbe circoscrivere l'ambito della discussione; a qualche frase polemica e discutibile tanto per invogliare a scendere in campo. L'ingrato compito, insomma, del provocatore.
      L'argomento è d'attualità, dopotutto. Più volte càpita di dover rispondere imbarazzati alle domande di amici e consanguinei di vario grado e varia capacità dialettica, per niente addentro nei fatti del jazz. «Ella Fitzgerald canta jazz o musica leggera?», chiede con un soave sorriso la nostra cara amica, non sapendo di procurarci una fitta lacerante. Inutile fare i furbi: una risposta esauriente va data entro due-cinque secondi, se non si vuoi perdere la faccia. Qual è allora il ruolo dell'elemento vocale nel jazz?
      La riscoperta di molti nomi del blues (basti pensare al festival-kermesse di Montreux dell'estate scorsa), la perenne fioritura in America del vecchio ceppo del rhythm & blues, così comune ora anche nella musica commerciale europea, il rinnovato interesse attorno alla figura di Billie Holiday innescato dal film di Diana Ross; diversi fattori insomma hanno convogliato l'attenzione del grosso pubblico sull'intera gamma dei modi vocali di derivazione afro-americana. E' il momento di proporre, perciò, un'analisi delle interazioni stilistiche tra elemento vocale ed elemento strumentale del jazz, tanto più che si tratta di un settore quasi dimenticato dalla critica.
      La strada si presenta subito irta di definizioni paradossali come i responsi della Pizia. «Se è vero che tutto il jazz deriva dalla musica cantata - ha detto il critico tedesco Joachim Berendt (un Berendt travestito da Zarathustra) - è anche vero che tutto il canto jazz deriva dalla musica strumentale» (1). Una definizione esemplare.        
Attenti però, specie i distratti, a non cadere nel perfido “craque-tete": c'è una bella differenza tra quella vaga «musica cantata» e uno stilisticamente inequivocabile «canto jazz». Quest'ultimo termine presuppone già un'organica e matura espressione musicale, una forma in qualche modo «d'arte».
      Canti e vocalismi rurali pre-jazzistici e jazzistici, come work song e field hollers, shouts, spirituals e blues arcaico - alcuni individuali, altri collettivi; alcuni intonati «a cappella», altri con accompagnamento strumentale di chitarra o di percussioni, sono ingredienti cospicui di quel pot-pourri in cui fermentò il jazz. Eppure, persa in epoca «storica» la loro individualità di espressioni culturali antropologiche, nel momento in cui si risolveranno in una compiuta «musica d'arte» (siamo arrivati al punto che debbo scusarmi per questo termine), quelle antiche forme vocali hanno finito per interessare al più l'etnomusicologo, non certo il musicologo o il critico, che cercano musica viva.
      Dal folclore, per di più remoto e aleatorio, ad una forma d'arte musícale matura, generalizzata nell'uso e compresa in tutto il mondo, come accade oggi - in una sola parola, alla tanto vituperata Kultur - il passaggio non è stato breve e conserva vaste zone d'ombra. Sta di fatto che soltanto il blues, unica ingombrante eccezione, resta, sia pure in declino, un genere vocale autonomo, pur avendo costituito fin dall'inizio - com'è arcinoto - un notevole elemento tematico-struttura1e della nuova musica, anzi la sua vera «anima negra» («tutto il blues è jazz, ma non tutto il jazz è blues» recitano gli scolari d'asilo).
      Come mai? Evidentemente perchè dotato - a differenza di altre forme vocali - di consistenza espressiva aútonoma, di più rigidi schemi formali e della tipica astrazione artistica che ne hanno permesso (se è lecito ragionare in termini di... darwinismo musicale) la sopravvivenza fino ai giorni nostri. Non a caso solo il blues tra le espressioni vocali prejazzistiche e jazzistiche ha toccato i vertici di un'arte raffinata che in Europa trova riscontro forse solo nella tradizione dei Lieder, pur continuando ad ispirare in epoca recente l'anima negra del «rivoluzionario» Parker e oggi perfino di un Archie Shepp.
      Restringere per ora il discorso alle forme non blues non cambia però i termini dell'analisi. E' un fatto che in epoca storica, cioè da almeno ottanta-novanta anni (ovvero dalla «civiltà dei rulli di pianola» o «del ragtime«, come dirà qualche antropologo del futuro) il jazz ha sempre privilegiato il momento collettivo-strumentale a scapito di quello individualc-vocale, come l'unico (ecco l'a posteriori storico) evidentemente in grado di garantirgli una certa coesione e quindi la sopravvivenza.
      Sarebbe certo interessante analizzare le ragioni ambientali e anche economiche di quella decisa e misteriosa «scelta strumentale». Un «giallo» storico in piena regola, che andrebbe svelato con l'aiuto di matrici rare, di documenti e giornali locali, locandine e magari qualche spartito mangiato dalle tarme. Quello che ad ogni. modo si poteva constatare fin dai primi anni venti era che il sound degli strumenti a fiato costituiva già il modello estetico della nuova musica, l'ideale a cui doveva conformarsi anche il vocalista jazz.
      L'uomo del jazz era non a caso idealizzato nel musicista di tromba - nel caso particolare: Bix Beiderbecke - nel romanzo Young Man With A Horn della Dorothy Baker, uscito nel '38; la stessa identificazione letteraria del jazzista col suonatore di fiati è nel Grande Gatsby di Scott Fitzgerald del '25, dove una strana «cantante di jazz con voce di contralto» nella scena del party di Gatsby fa una ben magra figura. Nei romanzi di Kerouac, poi, l'interpretazione strumentistica del jazz («Io voglio essere considerato un sassofonista jazz che esegue 242 chorus ... ») (2) è talmente ricorrente e determinante ai fini narrativi da assumere il ruolo di un leit motiv. Solo in The Jazz Singer del '27, il primo film sonoro, quest'identificazione non viene proposta; ma si fa presto ad accorgersi che il protagonista, il cantante-attore Al Jolson, è un bianco con un patetico faccione annerito di nerofumo e con le labbra sporche di biacca e che le melensaggini che canta tutto sono fuorché jazz. Sull'elemento vocale del jazz, infatti, grava fin dall'origine il sospetto-certezza della mistificazione.
      Certo, la condizione di minorità del cosiddetto “canto jazz” rispetto alla tradizione strumentistica è stata favorita dalla separazione tra il momento conviviale o d'intrattenimento (tutto sommato episodico, checché se ne dica) e l'esecuzione in funzione di un fine d'arte più o meno consapevole. Capitava che un leader d'orchestra e perfino un musicista-cantante come Armstrong riservassero alla ballroom il maggior numero di brani cantati, per presentarsi in sala d'incisione con brani per lo più strumentali, i migliori. A questo si deve se la maggior parte dei capolavori appartiene al genere rigorosamente strumentale o con scarni refrain vocali di tipo "scat". Inutile cercare brani vocali nelle prime matrici della Victor, i celebri Livery Stable Blues e Dixie Jass Band. One-Step della ODJB, del '17: eppure doveva trattarsi di cosette molto vendibili, se non altro
per il «lancio» della nuova musica.
Non deve meravigliare perciò che l'elemento vocale sia stato relegato tra i motivi episodici e sia risultato assente da tutti i momenti cruciali dell'evoluzione del jazz: quando la musica evolveva da polifonia bandistica a struttura "plastica" dominata dagli assoli (Oliver-Armstrong), nei brillanti arrangiamenti e nella scoperta dell'effetto dinamico dell'alternarsi delle sezioni (Fletcher Henderson), o nell'elaborata scrittura d'arte «ad personam» di Ellington, dove le vocalizzazioni di Adelaide Hall e Kai Davis occupano una posizione di contrasto, quasi mai felice. Del resto «il canto venne alla ribalta quando lo Swing tramontò», scrive significativamente l'Ulanov (3), un episodio di crisi, comprensibile nella stasi creativa e stilistica degli anni successivi alla grande depressione» del '29, se è vero che un cantante, occupando da solo diverse misure e monopolizzando l'attenzione dei ballerini, permetteva di far qualche economia sull'organico.
      Ma è un fatto (le testimonianze al riguardo sono concordi) che perfino nella cosiddetta «Era dello Swing», in piena commercializzazione del jazz ad opera dell'industria musicale, l'opinione prevalente era che i cantanti «rubavano solo del tempo prezioso alle orchestre e rendevano nervosi gli appassionati di jazz», (4). Per avere un passabile cantante, poi, bisognerà arrivare addirittura agli anni Trenta, alla Mildred Bailey (guarda caso, una cantante non di colore), quando ormai l'evoluzione del jazz in una musica che alternava riffs di sezioni agli insiemi è ai chorus solistici, tutti strumentali, era segnata.
      Non parliamo poi della rivoluzione del bop o quella più recente del free. Non risulta - a meno di voler dare importanza agli scherzi di Gillespie (in ogni caso posteriori e nei limiti dello scat) che il Minton's fosse frequentato con successo da ugole jazz, sia pure di « carta vetrata »: le uniche erano quelle dei fanatici suiveurs che incitavano con coloriti "yeah" gli strumentisti sulla pedana, mentre non tolleravano per esempio che gli avventori occasionali disturbassero con rumori di sorta. Nel dopoguerra del resto i tempi più bui per il jazz furono quelli in cui il facile pubblico americano e alcuni critici promossero Chet Baker e Sinatra «migliori cantanti di jazz»! 
      Di oggi non conviene parlare: mal gliene incoglierebbe al cantante che osasse calcare le pedane del jazz, pensate un po', nei gruppi che hanno riscoperto l'hard bop più energico e corposo. Perfino il Duca è stato fischiato a Berlino e a.Bologna, lo scorso anno, per colpa di un melenso cantante sweet, alla Mino Reitano.
      Come se non bastasse, le possibilità di successo per questa strana categoria di musicisti che nessuno vuole sono sempre state minime, con buona pace di quel critico italiano, noto per considerare il jazz una « musica leggera ». legata alle mode e al momento dell'entertainment, come dichiara onestamente (5). Il jazz è stato invece così poco legato al momento dell'entertainment e così immediatamente proteso verso una visuale «d'arte», che i rari momenti d'abbandono «leggero» sono segnati a dito nelle storie e dagli appassionati. Bix Beiderbecke si recava a piedi nei locali di State Street pur di ascoltare Armstrong, e lo stesso hanno sempre fatto i cultori di jazz con i loro beniamini, perchè sentivano che si trattava di cosa diversa dalla «musica di consumo».
C'è qualcuno che crede onestamente che se la musica negro-americana fosse sempre servita da background sonoro per le gesta gastronomiche degli avventori dei bar, o per quelle erotiche delle molte «Mary La Rossa», sarebbe arrivata fino a noi come «la più notevole forma d'arte musicale del secolo XX»? Naturalmente parlo del filone centrale, che, come tutti sanno, si sviluppava in luoghi privilegiati, segreti ai più, certo chiusi al turisti; quella mainstream stilistica che doveva assicurare vita, evoluzione e maturazione ad una musica così ricca e complessa. Ma non è questo il punto: i Brandeburghesi di Bach e molte cose di Mozart stanno a indicare il livello artistico che certa musica "convivia1e" o “su ordinaziorie" può raggiungere nella scuola europea.
      Questo, paradossalmente, è molto più difficile per il jazz, che pure avrebbe prosperato - come raccontano le guide per teen-agers - accanto alle alcove disfatte o negli speak-easies o nei café-restaurants. Non fa pensare, allora, questa significativa impotenza artistica del canto jazz?
      Altro che «ugole d'oro» riverite come i cantanti wagneriani, piuttosto ugole d'ottone al pari di cornette e sassofoni, se tutto va bene. Con che guadagno poi? Le difficoltà teoricamente sono paurose. Non solo la necessità d'imitare il tipico fraseggio degli strumenti a fiato – Mingus [No, era Slam Stewart, NdA] però inaugurò un modo incisivo di accompagnare con la voce il contrabbasso – ma l'intonazione, sempre problematica non essendo l'ugola uno "strumento" temperato, intervalli poco usuali, trilli e dissonanze, l'impossibilità a spiegarsi all'artificiale cromatismo, l'obbligo di tener d'occhio gli assoli degli strumenti e di uniformarsi alle armonie del piano e del contrabbàsso; tutti elementi che spiegano l'aleatorietà della resa artistica e la minore praticabilità del canto jazz.
      Un bilancio non del tutta negativo solo se si pensa che l'adattamento ha alimentato la geniale «maniera» del canto scat, dal superbo Armstrong degli anni Venti a Cab Calloway, a Gillespie, in cui le sillabazioni ritmiche («oo-pop-a-da», «pa-pa de-da» ecc.) condite dei più vari colori timbrici, con prevalenza dei dirty e degli effetti di sordina, superano talvolta per scioltezza di fraseggio ed espressività gli stessi modelli strumentali (6). Ruolo ingrato, però, quello del solista vocale: «Vocalista» più che cantante - la diversità dei valori semantici di blues singer e jazz vocalist è eloquente legato a filo doppio alla logica di una tecnica che non è quella naturale della propria voce.
Un ruolo sussidiario, «non incompatibile» con i canoni estetici del jazz solo nella misura in cui - per uno strano paradosso - l'elemento vocale arriva a perdere i propri connotati di voce umana. Come meravigliarsi allora di questa dipendenza stilistica? Per questo solo tre o quattro sono stati i vocalisti degni di tale nome, e ancor oggi i cultori di jazz, solo a sentir parlare di canto, storcono la bocca. Soltanto il blues, quello vero non l'imitazione commerciale, può a ragione definirsi "la voce del jazz".
      L'altro versante, quella più prossimo delle ballads e dei songs, viene generalmente toccato quando si parla della grande Billie Holiday, che come quasi tutti i vocalisti di jazz noti era non a caso fuori della corrente del blues (mentre i grandi cantanti blues erano sconosciuti) (7). E' un versante pericoloso, a strapiombo sulla palude della canzone commerciale; ma vale la pena di risalirlo se si è sicuri di trovare dall'altra parte le qualità timbriche, l'intonazione e il tipico fraseggio della buona voce strumentale. Ed è appunto il caso, unico, di Lady Day. Una felice eccezione (8). 
NICO VALERIO

NOTE
1. Joachim. Berendt, Das Jazzbuch (trad. it.: Il libro del jazz, Garzanti, Milano 1973, pag. 306).
2. Dal libro di versi Mexico City Blues; ma v. anche On The Road e il poco conosciuto Doctor Sax.
3. Barry Ulanov, Storia del jazz in America, Einaudi, Torino, 1965. p. 227.
4. Ibidem.
5. Lo spunto per questo articolo è venuto proprio da un accalorato scambio di opinioni col critico in questione, l'amico Umberto Santucci, il quale sostiene - come'è noto - idee diametralmente opposte.
6. « Il canto scat costituisce la possibilità più intensa del canto jazz al di fuori del blues». Proprio perchè « è la tecnica canora che permette a un cantante di avvicinarsi maggiormente all'ideale strumentale», scrive con la consueta chiarezza il Berendt (Op. cit., pag. 318).
7. Joachim Berendt, op. cit., p. 307.
8. Un esempio a caso, tra mille, di come il cantante (anzi, più correttamente bisognerebbe limitarsi a dire “vocalist”) possa rovinare un brano jazz, può essere Sunset Cafe Stomp, un brano di Louis Armstrong con i suoi Hot Five (16 novembre 1926). La sgangherata e sgraziata voce potrebbe essere quella di May Alix, ma alcuni suppongono che di lei sarebbe rimasto registrato il nome solo in quanto autrice dei versi [N.d.A. aggiunta oggi per la pubblicazione sul web].

IMMAGINI. 1. Billie Holiday, 2. Ella Fitzgerald e 2. Louis Armstrong (dis. di Gil.Gibli), 3. Bessie Smith, 4. Sarah Vaughan (copertina disco), 5. Cantante di jazz con orchestra (acquerello di Lobenberg, part.), 6. Cab Calloway (locandina spettacolo), 7.Mildred Bailey (copertina disco), 8. Anita O'Day (dis. di Cabu), 9. Jimmy Rushing, 10. Al Lolson (locandina del film "Jazz Singer"), 11. La norvegese Karin Krog, allora bellissima donna, conosciuta al festival di Bergamo nel 1974, il festival delle grandi contestazioni. Proprio di quegli anni è il disco che propongo qui della Krog con Archie Shepp al sassofono, anch'egli presente al festival di Bergamo: quindi i due devono essersi conosciuti in quella occasione.

AGGIORNATO IL 30 APRILE 2021

DROGA. In carcere per il solo sospetto: la legge proposta nell’anno del divorzio.

Per inquadrare il periodo storico, siamo all’anno del referendum sul divorzio, il 1974, che vide la grandiosa vittoria laicista contro il clericalismo e le prepotenze della Chiesa. Un’epoca lontana che allora sembrava agli incontentabili illiberale e oppressiva, ma che poi – al contrario – resterà nella nostra memoria nostalgica come l’apice dei “favolosi anni Settanta”, anni in cui si viveva in strada, altro che dietro un computer, e con la prima ragazza che incontravi (e se ne incontravano a centinaia ogni giorno) organizzavi all’istante una lunga vacanza in tenda in un’isoletta sperduta. Che tempi! Anni di rapporti individuali liberi e spontanei, avventure, felicità e libertà, musica libera in piazza, grande socializzazione popolare. La gente era ancora amica e solidale: nelle città ancora non si uavano le porte blindate e le inferriate alle finestre; nei villaggi di giorno le porte delle abitazioni restavano aperte o socchiuse o con la chiave nella toppa. E sul piano politico e sociale anche anni di ritrovata laicità risorgimentale, partecipazione di massa alla cosa pubblica. Pensate: era prima dell’Aids, dell’Adsl, delle immigrazioni di massa... per accennare solo a tre eventi che avrebbero cambiato la nostra vita in modo irreversibile.
      Ebbene, in quell’annus mirabilis che vedrà a maggio la grande vittoria contro il referendum indetto dai clericali per abrogare la legge sul divorzio, a gennaio già i conservatori democristiani del governo Andreotti cercavano di soppiatto di insinuare un progetto di legge repressivo “contro la droga”. Iniziava così il grande dibattito giuridico e politico sull’uso delle droghe, soprattutto “leggere”. Sul prestigioso “Il Mondo”, che era stato fondato da Pannunzio e in quel momento era diretto dallo scrittore Renato Ghiotto, il giovane Nico Valerio, che già dal ginnasio, tra i 14 e 15 anni, aveva maturato una forte scelta liberale, così faceva il punto sulla questione [N.V.]

 LA NUOVA LEGGE SULLA DROGA

 IN CELLA DI SALUTE

Con un colpo di mano improvviso, è stato presentato in commissione al Senato il progetto elaborato dal governo Andreotti: chiunque potrà essere arrestato in base a un semplice sospetto, senza che venga a cadere l'assurda identità di trattamento fra consumatori e spacciatori. Una proposta alternativa dei socialisti 
di Nico Valerio, Il Mondo, 10 gennaio 1974
ROMA. Lo scorso anno, in pieno periodo nata­tizio, anche sotto le pressioni della pubblica opi­nione, governo e parlamento approvarono rapidamente la legge che riconosceva l'obie­zione di coscienza e una « leggina » che consentì la scarcerazione di Pietro Val­preda. A distanza di un an­no, è possibile che venga introdotta, anche questa volta rapidamente, un'altra novità nell'ordinamento legislativo italiano: il « fermo preventi­vo di polizia » fino ad un anno, con cui dovrebbero es­sere colpiti coloro che sono sospettati di far ricorso alla marijuana o all'eroina; e, in aggiunta, pene detentive fino a cinque anni (quindici per i giornalisti) per chi, anche senza avere mai consumato droghe di nessun genere, ha commesso la leggerezza di parlarne o di scriverne, con­tribuendo così a farle conoscere presso il grosso pubbli­co, a favorirne insomma, in­direttamente, la diffusione.
      Riesumato in tutta fretta dal ministro della Sanità, il moroteo Luigi Gui, proprio il giorno successivo all'appel­lo dei parlamentari democri­stiani per una legge esemplare contro la criminalità, il progetto di legge « antidro­ga » Gaspari-Gonella, dopo mesi di ibernazione (era sta­to presentato alle camere nel febbraio scorso) è giunto inaspettatamente sui tavoli delle commissioni Sanità e Giusti­zia del Senato, senza che i commissari ne sapessero nul­la. Lo stesso Gui aveva personalmente sollecitato la presentazione del progetto alle commissioni competenti, do­po avere annunciato il 23 novembre, in un convegno sulle tossicomanie, indetto dal­l'ordine dei medici, che la legge era stata « fatta pro­pria » dal governo senza nes­suna modifica rispetto al vecchio testo approvato nel dicembre scorso dal governo centrista di Giulio Andreotti.

Proteste da ogni parte
« E' stato un vero e pro­prio colpo di mano », sosten­gono ora gli esponenti dei partiti laici. Solo il 26 no­vembre, il giorno prima del­l'inizio della discussione, il senatore Ossicini, indipen­dente di sinistra, riceveva la convocazione; lo stesso senatore Barbera, socialdemocra­tico, relatore della commissione Sanità, non sapeva mol­to di più, e, a differenza del relatore della commissione Giustizia, il democristiano De Carolis, non aveva anco­ra potuto procedere a prepa­rare la relazione introduttiva. « Certo », dice un commissa­rio di un partito di sinistra, « i tempi sono cambiati ri­spetto a un anno fa e gli al­leati laici della DC non vor­ranno assumersi il peso po­litico di una legge che perfi­no il governo centrista aveva lasciato cadere, sotto il peso delle polemiche degli ambien­ti scientifici e giuridici ».
      Fa­cile previsione è che special­mente i socialisti, che già espressero un netto « no » al­la legge sul fermo di polizia, ribadiranno una serie di cri­tiche all'iniziativa. L'« Avan­ti », infatti, ha già trovato modo di protestare, facendo notare che l'intera legge Ga­spari è di una preoccupante genericità e congegnata in modo da consentire alle forze di polizia di « arrestare chiunque » sulla base di un semplice sospetto: « Chiunque accede nei locali previsti dal primo comma (dove, cioè, qualcuno sta consumando droghe, ndr) per darsi all'uso di sostanze stupefacenti... è punito con la reclusione fino ad un anno". Il mandato di cattura è obbligatorio.
      Non è ipotesi che riguardi necessariamente "hippies" o sbandati. Gli stessi articoli 16, 17 e 18 della Costituzio­ne, sul diritto di riunione, sarebbero forse sostanzialmen­te elusi. Un'altra norma, nel punire, al di là della palese detenzione di stupefacenti, addirittura il « sospetto d'u­so », affida l'accusa alla no­torietà e alla « vox populi ».
      Sono in molti ad essere convinti che il recupero del­la proposta potrebbe facilita­re un tentativo di reinsedia­mento dei settori più oltran­zisti della destra della DC. E' quello che ritengono i so­cialisti. L'onorevole Claudio Signorile, della direzione del PSI, membro della commis­sione Sanità della Camera, mostra di credere ad un pre­ciso disegno che, attraverso un'ondata « moralizzatrice » nei costumi e nella vita pri­vata dei cittadini, dovrebbe consentire alla destra democristiana e ai gruppi d'opi­nione collegati di riguadagna­re quello che hanno perduto o si preparano a perdere sul piano politico. Un tentativo di rivalsa insomma contro il quale « occorre vigilare, spe­cie in parlamento ». Per que­sto, il PSI si prepara a pre­sentare sugli stupefacenti una proposta di legge alternativa, firmata dallo stesso Signorile e da Colucci. La proposta, da un lato, dovrebbe colpire molto più duramente di quan­to non faccia la proposta Ga­spari gli spacciatori e i grossi trafficanti, mentre, dall'altro, dovrebbe facilitare la cura degli intossicati, senza repres­sioni, riconducendo il feno­meno alla sua dimensione sanitaria e sociale.
      Anche sul piano medico­-sanitario, infatti, il progetto Gaspari appare a molti inadeguato, perpetuando in so­stanza i vecchi errori della legislazione attuale. « Cosa possiamo attenderci », do­manda con tono polemico l'avvocato penalista Franco De Cataldo, repubblicano, « da un testo che è opera di funzionari e direttori generali di ministeri e non di scien­ziati e giuristi di chiara fa­ma? ». Anche Augusto Pre­moli, presidente liberale del­la commissione Sanità del se­nato, che pure ha, al riguar­do, un atteggiamento possibi­lista, riconosce che « per cer­ti aspetti la legge è frutto di una mentalità vecchia, sor­passata, e poi rischia di arri­vare in ritardo sui tempi ».
      Gli esperti, medici specia­listi e psichiatri, sono ancora meno teneri e fanno notare che nel testo si fa confusione tra droghe « pesanti », che causano danni gravi e irrepa­rabili all'intero complesso psico-fisico e generano assue­fazione, e droghe « leggere », che non portano a questo « punto di non ritorno ». Vengono inoltre lasciati fuori dal novero delle sostanze proibite non solo alcool e ni­cotina (le « droghe di stato » ben più pericolose ad esempio della marijuana, come ha concluso la commissione go­vernativa Schaeffer negli Usa, dopo anni di sperimentazioni condotte senza risparmio di mezzi, e come ha confermato lo scienziato Adriano Buzzati­-Traverso, vicepresidente del­l'Unesco), ma anche i perico­losi tranquillanti e antide­pressívi lanciati sul mercato dalle nostre 1140 case farma­ceutiche in forme di vero e proprio « consumo indotto».

Non c’è tempo da perdere
      Per un'efficace terapia man­cano poi, a tutt'oggi, i pre­visti « centri di assistenza ». Ma quello che più colpisce è che, malgrado le risoluzioni di decine di congressi, ultimo quello organizzato dal­l'Unesco a Parigi nel settem­bre scorso, abbiano invitato il legislatore italiano ad una netta differenziazione tra traf­ficanti e consumatori, il progetto Gaspari commina la stessa pena a « chiunque sen­za autorizzazione produce, fabbrica, estrae, offre, pone in vendita, distribuisce, acquista, cede e riceve... o illegalmente detiene sostanze stu­pefacenti ». Tutto vanificato, dunque: r nuovo a punto di partenza. Il grosso traffi­cante, la mafia italo-america­na, e il consumatore occasio­nale, necessariamente deten­tore, accomunati da una nor­ma davvero pericolosa ed equivoca. Una denuncia al proposito, è venuta anche da una lunga corrispondenza da Roma del « Times » di Lon­dra.
      Tralasciando le pene per « responsabilità oggettiva » a carico di padroni di casa, di­rettori di locali pubblici e re­sponsabili di comunità (se un liceale « fuma » nella toilette va in prigione il preside), sor­volando sull'inumana disin­tossicazione coatta cui deb­bono sottostare anche coloro che intossicati non sono, se vogliono evitare il carcere, si arriva all'articolo in cui vie­ne previsto l'obbligo, per i medici curanti, di denunciare all'autorità tutti i casi a loro conoscenza. « Non è certo trasformando il medico in poliziotto », dice il professor Luigi Cancrini, dell'istituto di psichiatria dell'Università di Roma, uno dei portaban­diera della campagna contro il progetto, « che si può por­tare a buon fine l'opera di recupero di tanti giovani di­sadattati al loro primo con­tatto con gli stupefacenti. Al contrario, diminuirà il nume­ro di coloro che si rivolgono al medico e la situazione di forzata clandestinità avrà con­seguenze gravissime sul pia­no sanitario e sociale ».
      Contrari a questa legge so­no anche i comunisti. Il se­natore Argiroffi, membro co­munista della commissione Sanità, è esplicito nel condan­nare le motivazioni politiche del progetto: « Il tentativo di strumentalizzare un proble­ma così scottante, gonfiando magari le cifre delle rileva­zioni statistiche, nasconde da una parte la volontà di farne argomento di propaganda po­litica, giocando pericolosa­mente all'allarmismo tra i ce­ti più paurosi delle "maggio­ranze silenziose", e, dall'al­tra, vale forse a esorcizzare il nuovo démone della droga, come nel medioevo si faceva con le streghe e gli ereticì ». « Per moralizzare questo settore del nostro ordinamen­to », aggiunge Argiroffì, « il gruppo al quale appartengo si sta adoperando perché ven­ga ratificata anche dall'Italia, al più presto e preliminarmente alla discussione di qualsiasi progetto di legge sulle droghe, la convenzione unica sugli stupefacenti firmata a New York il 30 mar­zo 1961, ora finalmente giun­ta all'ordine del giorno dei lavori della commissione. Ma, restando al progetto in esa­me, deve essere denunciato il suo carattere autoritario, qua­si che si volesse diffondere l'uso della delazione nelle scuole e in altri, ambienti do­ve esiste una massiccia pre­senza di giovani ».
      Parole simili, tutto somma­to, a quelle che si potevano leggere su Liberazione, il gior­nale radicale di Marco Pan­nella: « Ci troviamo forse di fronte ad una campagna di moralizzazione di stampo cle­ricale nella quale vengono coinvolti drogati e rapinato­ri, delinquenti e non, da pre­sentare all'opinione pubblica all'insegna del motto "salvia­mo i nostri figli" come re­sponsabili di una presunta crisi morale del nostro pae­se? E non viene il fermo di droga riproposto oggi, quando, a due mesi dalla riapertura delle scuole, gli studenti danno di nuovo segno di at­tività politica?».
      Per gli oppositori, insom­ma, non c'è tempo da perde­re. Esiste il pericolo che si finisca per considerare « dro­gato » ogni cittadino scomo­do. Quello che preoccupa è il clima, si dice. Un progetto può anche non essere appro­vato, non per questo chi l'ha sottoscritto è meno libero dl colpire nuovamente, anche a distanza di poco tempo. Del resto, se la legge è arrivata in commissione, con tanti progetti più importanti che attendono da tempo, è segno che verrà rapidamente esami­nata. Il relatore senatore De Carolis è stato chiaro: a suo parere i lavori procederanno « a ritmo sostenuto ». (N.V)

AGGIORNATO IL 14 AGOSTO 2016

10 aprile 2016

SCANDALI? Solo in democrazia i panni sporchi si lavano in piazza (Malaparte).

SCANDALI? Dimostrano che siamo in Democrazia, bellezza! Se vuoi non che non esistano più, ma che non se ne senta più parlare (per alcuni, troppi finti critici e moralisti-immoralisti, evidentemente è lo stesso...), sostieni la Dittatura. Una qualsiasi. Non hai che l'imbarazzo della scelta: nazismo, comunismo, fascismo, islamismo... Che scegli?
      Naturalmente, non è così drammaticamente "semplice": c'è anche da considerare la variabile Italia. Da alcuni (pochi) intesa come cittadini; da altri (i più) come Stato. Ma leggiamo uno che di scandali si intendeva, un uomo e intellettuale che scandalizzò per tutta la vita, e perfino in punto di morte (NV):

«Scandali. Molti si preoccupano degli scandali che da qualche tempo, nel campo finanziario, politico, giudiziario etc., intorbidano la vita italiana. Non vedo perché dobbiamo preoccuparcene. Non siamo forse partigiani di una libera e sana democrazia? Ebbene: la democrazia non è libera e sana che grazie agli scandali. La storia di tutte le democra­zie, antiche e moderne, è un seguito di scandali altrettanto clamorosi quanto salutari. Chi se ne spaventa, cambi bandiera. In democrazia, i panni sporchi si lavano in piazza. È soltanto nei paesi totalitari che i panni sporchi si lavano in famiglia, cioè nel silenzio discreto delle questure e delle prigioni. Guardate l'Italia di Mussolini, la Germa­nia di Hitler, la Russia sovietica. In quell'Italia, in quella Germania, gli scandali eran rarissimi. In Russia, sono ancor più rari. Che cosa significa questo? Che non vi fosse e non vi sia materia di scandali? Ce n'era e ce n'è anche troppa. Ma in un regime totalitario gli scandali son soffocati sul nascere, e in una libera e sana democrazia scoppiano liberamente. Poiché se un regime totalitario permettesse gli scandali, cadrebbe: e né uno né mille scandali riusciranno mai a buttar giù una democrazia. (Senza contare che, in certi paesi, la democrazia è di per se stessa uno scandalo)».
      «L'Italia non c'entra. A tutti coloro che bestemmiano l'Italia per le sue leggi antiquate, per la sua magistratura, la sua burocrazia borbonica, la sua cattiva amministrazione, per gli scandali, per lo sperpero del pubblico denaro, per i soprusi, le prepotenze, gli abusi di autorità, per il concetto poliziesco con cui s'interpreta la giustizia, la libertà, la democrazia, per le condizioni di vera e propria servitù in cui il cittadino italiano è tenuto dallo Stato, io vorrei rispon­dere che l'Italia non c'entra, che la nazione italiana non c'entra. Tutti i mali della vita italiana nascono non già dal popolo, ma dallo Stato. Poiché non è vero che ogni popolo ha lo Stato che si merita: è infatti lo Stato che fa il popolo, non il popolo che fa lo Stato. A uno Stato che sperpera i denari del popolo, corrisponde un popolo che cerca di eludere il fisco. A uno Stato che avvilisce e impaurisce i cittadini, corrispondono cattivi cittadini, e cattivi soldati. Le tirannie (e le democrazie poliziesche) perdono le guerre perché trasformano i cittadini in peco­re, e con le pecore non si vincono le guerre. Quando Massimo d'Azeglio disse: «Fatta l'Italia, bisogna far gli italiani», disse cosa cretina. Poiché, fatta l'Italia, bisognava far lo Stato italiano, unico strumento per far gli italiani, cioè per rifarli, per rieducarli, avviliti e corrotti com'erano da secoli di schiavitù e di cattiva amministrazione. E invece, quale Stato uscì dal Risorgimento? Uscì una ibrida istituzione nata, su un tronco feudale, dall'affrettata fusione del Regno di Sardegna col Regno dei Borboni e con gli altri piccoli Stati italiani, delle leggi piemontesi con quelle borboniche, pontificie, austriache, ecc. Ne venne fuori uno Stato pseudo liberale e pseudo democratico, sostan­zialmente feudale, reazionario e poliziesco, che dagli stessi uomini del Risorgimento, da Cantù, da Cattaneo, da Mazzini, da Ricasoli, e dallo stesso Cavour, fu giudicato una creazione antistorica, fatta più per perpetuare il malgoverno, la cattiva amministrazione, gli abusi della polizia, la corruzione della giustizia ecc. che non per promuovere e difendere la libertà, il progresso, e il benessere del popolo italiano. Molta parte dell'attuale situazione di disagio pre-rivoluzionario in Italia, nasce dalla spesso giustificata reazione popolare contro uno Stato assolutamente indegno di una nobile e civile nazione come l'Italia».
      «Il discorso potrebbe andare per le lunghe, ma si può compendiare in poche parole. Nel 1915, per persuadere le masse dei benefici della guerra, fu promesso che dalla guerra sarebbe nata una profonda riforma dello Stato. Non se ne fece nulla. Il fascismo, mosso in origine contro l'inefficienza e la corruzione dello Stato, peggiorò la situazione. Venne la Repubblica, e tutti sperammo che dalla nuova Costituzione, dalla nuova democrazia, uscisse finalmente quella riforma dello Stato, che le classi politi­che ci promettono invano da cinquant'anni. I fuorusciti, gli antifascisti, quelli veri e quelli falsi, una volta saliti al potere, non solo non hanno tentato neppure la promessa riforma dello Stato in senso democratico, ma hanno accettato con gioia, (per servirsene come strumento di governo), l'eredità di quelle leggi fasciste che per venti anni avevano avversato. Il solo vantaggio apparente che questa povera democrazia ha dato al popolo italiano, è una vaga libertà di stampa che, in uno Stato come questo, retto da leggi antidemocratiche, si risolve in una beffa. Dovremmo dunque, per un tale intollerabile stato di cose, (di cui profittano soltanto i comunisti), bestemmiare l'Ita­lia? No, perché l'Italia non c'entra. Date all'Italia uno Stato moderno, onesto, leale, giusto, fondato sul rispetto della libertà e della giustizia, e le cose cambieranno».
«Una dichiarazione personale. Io sono orgoglioso di essere italiano, ma mi vergogno d'essere un cittadino dello Stato italiano. E non mi si venga a dire: «Se non sei contento, cambia cittadinanza». No: perché sono fiero del mio popolo, ed ho, come tutti gli italiani, il diritto di essere cittadino di uno Stato degno del popolo italiano. Ho il diritto di non dovermi vergo­gnare dello Stato di cui son cittadino».

[Curzio Malaparte, Battibecchi. A cura di Enrico Nassi. Shakespeare and Company/Florentia. Firenze 1993]

L' attualità estrema di queste pagine scritte dallo scrittore e giornalista italiano Kurt Eric Suckert (Curzio Malaparte) nel lontano 1954 per la sua rubrica sul settimanale "Tempo", ora scomparso, e raccolte da un redattore del giornale nel felicissimo libro "Battibecchi" (medesimo titolo della rubrica) non deve far dimenticare "chi" scriveva questi concetti, dopo una vita passata a dire, fare e pensare tutto e il contrario di tutto, fino a scandalizzare e irritare profondamente (ma anche irretire col suo fascino unico) tutti: di Destra, Centro, Sinistra, anti-sistema, anarchici, qualunquisti, monarchici, repubblicani, Italiani e stranieri. E sì, perché mai come nel caso di Malaparte - il caso più emblematico della psicologia, starei per dire antropologia italiana - la figura del personaggio con i suoi vizi e le sue virtù è, deve essere, prevalente sulla sua opera multiforme e scoppiettante come fuochi d'artificio. Una vita come opera d'arte (mal riuscita o riuscita fin troppo bene)? 
A  proposito della riscoperta di Malaparte dagli editori francesi, ma pensando all’Italia, Enzo Bettiza così ritrae sulla Stampa la geniale, contraddittoria, controversa figura del grande scrittore e giornalista dalla vita avventurosissima, narcisistica, esibizionistica e fuori schemi (D’Annunzio, al confronto, era un provinciale). Accadde così che nella prima metà del Novecento, l’intelligentissimo e insofferente figlio d'un tedesco e d’una toscana, casualmente nato a Prato, diventasse così perfettamente italiano-antitaliano da assurgere (e da fine analista ne era consapevole) a simbolo pressoché perfetto d’un modo di essere, di vivere, e soprattutto di criticare (sempre con ragione, s'intende), pur essendo il più tipico e sfacciato "voltagabbana". Con l'aggravante della "malalingua" e dell'intelligenza d'un toscano (ovviamente anti-toscano: v. "Maledetti toscani"). Insieme elitario e populista, dandy e trasandato, raffinatissimo e sociale, nazionalista e cosmopolita, fascista e comunista, monarchico e repubblicano, pacifista e guerrafondaio ecc. Perfino in punto di morte sorprese tutti con la sua ultima contraddizione-coup de theatre: da ateo si fece convertire. Dimostrando, insomma, che l’anti-italiano perfetto era (ed è) il più italiano di tutti, l'arci-italiano. NV

IMMAGINE. Malaparte: elaborazione da particolare della copertina di O.Guerrieri, Curzio, Neri Pozza ed.

02 aprile 2016

EUROPA? Troppo grande per essere una Patria (Leopardi). E troppo tardi, ormai.

«Le città antiche, se anche erano piccole come le moderne, e tuttavia servivano di patria, erano però piú importanti assai, per la somma forza d’illusioni che vi regnava e che, somministrando grandi eccitamenti e premi grandi, ancorché illusorii, bastava alle grandi virtú. Ma questa forza d’illusioni non è propria se non degli antichi, che come il fanciullo sapevano trar vita vera da tutto, ancorché menomo. La patria moderna dev’essere abbastanza grande, ma non tanto che la comunione d’interessi non vi si possa trovare, come chi ci volesse dare per patria l’Europa. La propria nazione, coi suoi confini segnati dalla natura, è la società che ci conviene. E conchiudo che senza amor nazionale non si dà virtú grande» (Giacomo Leopardi, Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura [“Zibaldone”], Le Monnier, Firenze 1898, p. 896).

      Non ricordavo questo passo del grandissimo Leopardi. Argomentazione molto acuta e sensata. L'amor di Patria già è difficile in un Paese dalla Storia antica e per secoli diviso - una città contro l'altra - come l'Italia, che perciò continua ad avere municipalismi meschini e provinciali (e il filosofo-poeta di Recanati ne sapeva qualcosa, viste le parole sprezzanti che ha verso l’ottusità dei suoi concittadini).
      Del resto, non si può sostituire l'amor di Patria, che è sentimento che si nutre di vicende eroiche comuni, e si matura lungo secoli, grazie soprattutto alla medesima lingua [v. l’importanza determinante della lingua comune nella genesi del sentimento nazionale di unità italiana], con la "passione" prima per un’arida zona doganale di libero scambio, poi per una burocrazia unificatrice di mere leggi e regolamenti industriali ed economici. Figuriamoci che trasporto emozionale potrebbe esserci – specialmente ora che è chiara a tutti i popoli d’Europa la mancanza di forti idee comuni, perfino per contrastare l’islamismo fanatico e la destabilizzante immigrazione forzata dall’Asia e dall’Africa – verso una Federazione politica, di là da venire, e comunque ormai troppo tardiva.
      Ma gli Stati Uniti, allora? Il caso dell’unione politica degli USA, madre di tutti i confronti, è diversissimo, perché la Confederazione coincise quasi con le lotte per l’indipendenza dall’Inghilterra e con la raggiunta libertà. Un evento eponimo unificante. Per noi Europei, all’opposto, non fa testo la forzosa unione burocratica e culturale imposta dai Romani dall’alto della loro civiltà a popoli in molti casi rozzi e primitivi, capaci solo di tenere le armi in pugno, senza democrazia, controllo sociale e opinione pubblica. Un’Europa “subìta” anche quella, ma almeno unificata dalla lingua latina, a differenza di oggi. Dopodiché, per i popoli del continente europeo seguirono 2000 anni di vite e lingue separate, gli uni contro gli altri.
      Perciò l'Unione europea, tanto più a volerla completa (politica, diplomatica, militare, finanziaria ecc.), è una cosa insieme nuova e vecchia, superata perché fuori tempo massimo, e comunque perfino la versione minima attuale appare fredda, quasi solo per politici, economisti e funzionari che vi lavorano, per niente sentita dai cittadini. Ma come – mi si obietterà – non eri un europeista ultras fino a pochissimi anni fa, uno che portava in palmo di mano il Manifesto di Ventotene di Spinelli, Rossi e Colorni, uno che si vantava come tutti i moderni Liberali e Radicali di aver sostituito semplicemente il coraggioso nazionalismo del Risorgimento italiano con l’Europeismo, cioè una piccola Patria con una grande e sovrannazionale?
      Già, ma ora ci si accorge che il nostro forte europeismo di adolescenti e giovanie liberali era tutto di testa, solo ideologico, passionale, copiato dagli idealisti che ammiravamo (esperti di opposizione al Fascismo, non di democrazia), insomma poco razionale. Perché la Ragione – ha insegnato Croce – è anche e soprattutto Storia. E la Storia e l’osservazione psicologica ci hanno fatto vedere che in democrazia gli ideali si trasformano ben presto in politica di mediazioni snervanti e inconcludenti, in apparati burocratici che prendono il sopravvento, in popoli sempre più distanti, abulici, egoisti, ottusi, anti-politici. Mentre, per fare un nuovo Stato, come sarebbe una confederazione europea (“Stati Uniti di Europa”), ci vuole un idealismo diffuso, tra i politici, gli amministratori, i burocrati, i cittadini qualunque. Che oggi non c’è; anzi, ce n’è sempre meno di quel po’ che era avanzato da Risorgimento e Resistenza.
      Per di più se l'Europa oggetto del tuo amore non ti ama (e non c’è dubbio che l’Europa, perfino la modesta Unione Europea di oggi, non ama i suoi cittadini), devi lasciarla, se non odiarla. L'Europa andava ricostituita secoli fa, caduto l'Impero Romano, e soltanto nei brevi intervalli della sua travagliatissima storia in cui si presentavano le condizioni storiche adatte. Come nel Rinascimento (a opera di un Principe dispotico), nel Settecento (su stimolo degli Illuministi e ad opera d’un re illuminato), o al massimo nell'Ottocento del popolo diventato borghesia (ideali di libertà, Liberalismo romantico, idealismo, coraggio).
      Ma oggi è davvero troppo tardi. Anzi, è sempre più tardi.
E poi, perfino l'Europa geografica appare a noi, come del resto appariva a Leopardi nel 1821, troppo grande. L’Unione burocratica e mercantile di oggi ha troppi Paesi, accolti troppo affrettatamente da una classe di politicanti senza scrupoli – e quelli europei sono i più mediocri – solo per “far numero” e "massa critica", per provare in qualche modo sul campo i loro giochi virtuali di mercato globale e di “risiko” geo-politico, senza alcun coinvolgimento preliminare dei cittadini, senza nessuna lunga e lenta maturazione civile ed "educazione alla Patria comune" di popoli ormai resi cinici ed egoisti da tragedie e storie contrastanti.
Troppi limiti, insomma, perché l'unione politica e sociale possa non solo realizzarsi, ma addirittura essere desiderabile.
      E soprattutto (Leopardi, pur idealista, aveva capito tutto parlando esplicitamente di “comunione d’interessi”) va sottolineato che tutti i popoli europei hanno e manifestano tuttora, perfino dopo decenni di mercato comune, trattati e Unione economica, interessi contrastanti tra loro, che non accennano ad appianarsi, ma anzi stanno diventando sempre più divergenti col prevalere evidentissimi degli interessi di Germani, Gran Bretagna e Francia sugli altri. Non parliamo poi delle psicologie e idiosincrasie dei popoli e perfino dei singoli cittadini! Io, p.es., sento di non aver nulla a che fare con molti Paesi europei, mi sento più vicino a Israele, per dire, che agli abitanti di Svezia e Spagna, Scozia, Grecia, Malta, Cipro, Lituania, Slovenia e Croazia.