13 ottobre 2016

DARIO FO, istrione di genio. Così contro il Potere da diventare “giullare di Corte”.

Sottovalutato da attore comico e satirico, supervalutato da uomo di cultura e di ideologia, Dario Fo ha lasciato oggi questa Terra, sicurissimo di non approdare a nessun’altra. Come non ha fatto notizia l’inizio della sua carriera, così ora fa notizia la sua morte: singolare eccezione nel Paese in cui i buffoni non muoiono mai.
      In effetti, come dice con umorismo involontario la pubblicità di Radio Radicale, nessuno come lui era davvero così “dentro ma fuori dal Palazzo”. Senza quest’ultimo, sarebbe morto anzitempo e di freddo nel cortile: gli è convenuto, perciò, entrare.
      E infatti la famosa Fondazione Nobel (dall’inventore delle bombe e della dinamite) lo aveva premiato con un Premio sontuoso, lui ultra-pacifista e non-violento (verso gli amici; un po' meno verso i nemici), ma che da giovane aveva aderito alla Repubblica Sociale Italiana di Mussolini (ma i giovani sventati, si sa, fanno sciocchezze per entusiasmo; e del resto lo stesso aveva fatto un altro grandissimo istrione, Giorgio Albertazzi, forse perché il Fascismo è falsità estrema, teatro nel teatro).
      Legatissimo al Potere, per criticarlo a sangue (“Far odio” è l’anagramma perfetto del suo nome), ha dovuto per tutta la vita abbeverarsene avidamente, lucrando così senza averla programmata e quasi subendola, una comoda rendita di posizione di Critico Numero Uno, una sorta di involontario “buffone di Corte patentato e riconosciuto”, secondo l’antica e dignitosa tradizione italiana rinascimentale. La sua "maschera" inconfondibile, la sua esplosiva e irriverente risata, i suoi sberleffi circensi, nascondevano la durezza implacabile, quasi l'odio, del vero artista satirico.
      Una vera guerra continua, la sua: l'arma dello sghignazzo senza pietà di un pupazzo buffo, matto ed eterno bambino contro altri pupazzi mascherati, altrettanto buffi, quelli del Potere. Un pupazzo che al culmine del successo, conseguito grazie all'aiuto fondamentale della moglie Franca Rame, vera attrice e unica guida vera, che venendo da una famiglia di teatranti ha nel sangue il palcoscenico, nei primi anni Sessanta si stanca di fare il giocattolo della "borghesia", che ride e gli dà soldi per essere presa in giro, e approfittando della cacciata dalla RAI per aver parlato a Canzonissima di mafia e morti sul lavoro, passa dall'altra parte: la denuncia delle ingiustizie sociali.
      Ma nonostante la faziosità, la divisione del Mondo in "buoni" e "cattivi", la semplificazione manichea tra amici e nemici, e i conseguenti errori, anche quelli più vergognosi (i nemici ricordano ancora l'imperdonabile difesa degli assassini di neo-fascisti Mattei nel "rogo di Primavalle" e la mancata condanna delle Brigate Rosse; ma come si può rimproverare un artista di non capire nulla di Politica? E' la norma!), la sua satira si serviva sempre d'una fantasia gioiosa e liberatoria che era il suo modo "da circo" di fare teatro. Più che attore era un clown irriverente. Attratto e schifato, insieme, dall'oggetto dei suoi sberleffi. Come càpita ai satirici – vedi il romanesco G.G. Belli – la dipendenza parassitaria dall'eterno oggetto della satira, specialmente quando un generico e onnicomprensivo "Potere" finisce per abbracciare tutta la società, era evidente, e provocava una certa ambiguità. Fatto sta che per decenni, quella di Fo è stata l'unica vera opposizione di stampo popolare nella cultura dello spettacolo (e del teatro in particolare, sempre elitario) che si sia vista in Italia.
      Però, non venitemi a dire che Dario Fo era "anti-italiano": al contrario, sia per forma che per contenuto era italiano, italianissimo.
      Nel Paese degli istrioni, narcisi perdutamente innamorati di se stessi che si vedono sempre, per tutta la vita, “un uomo solo sul palco”, e pur dicendosi “indipendenti e soli con la propria coscienza”, anche quando sono Presidenti del Consiglio recitano in televisione a reti unificate un copione in realtà dettato dal pubblico (e come spiano la platea per modificare in tempo le battute e avere il massimo degli applausi!), Fo è stato un istrione sommo, un narciso incomparabile. Un italiano perfetto.
      Nel Paese dei guitti girovaghi di villaggio in villaggio, di parrocchia in parrocchia, sul loro carro di Tespi alla ricerca di qualche spicciolo per le loro filastrocche, ma più vogliosi di pubblico che di soldi, Fo è stato un guitto che ha fatto il giro di tutte le parrocchie. Un italiano vero.
      Nel Paese dei “buffoni di Corte” al servizio del Principe (ovvero, i Potenti di turno), compresa quel po’ di crudele critica di costume, ma innocua a ben vedere, sui soliti “malvagi” e “sfruttatori”, sempre gli “altri” ovviamente, sempre assenti dal palco, dalla platea e dalla reggia (il militare, il poliziotto, il prete, l’industriale, il capitalista, il fascista, il ministro), che fa tanto colore, riempie sempre i teatri, e in fondo piace anche al Potere, quello vero, che sta sempre da un’altra parte, e spesso – paradossi della vita – sta dietro allo stesso palco, Dario Fo è stato anche il Comico Ufficiale, il buffone di Corte per antonomasia, sempre osannato – qualunque cosa facesse o dicesse, anche sbagliata – dal monopolio della Corte dominante: giornali, mondo dello spettacolo, intellettuali, opinionisti. Insomma, bravissimo sul palco, ma fuori dal palco anche lui, perfino lui, un “amico degli ambienti giusti”, o per dirla col solito eufemismo, un “fortunato”. Italiano tipico.
      Fascista durissimo e antifascista implacabile nel giro di pochi anni, come molti Italiani, la sua incoerenza aveva una certa paradossale linea di “continuità” ideologica, qualcosa di “coerente”. Dal Fascismo di Mussolini al Partito Comunista di Togliatti, dalla Sinistra estrema di anarchici e “gruppuscoli” fino al Movimento 5 Stelle di Grillo, fu sempre comunque contro l’Occidente. Il Liberalismo non lo capì mai. Ecco perché, non solo per la vita, la carriera, la parabola nelle idee politiche, la genialità teatrale, la fantasia fresca e infantile di questo grande Commediante, più italiano degli Italiani anche negli errori, che non si è mai sentito “di Destra” neanche da fascista-comunista-grillino, convinto come tutti gli Italiani di avere avuto sempre ragione, ora la sua morte è celebrata come evento nazionale, santificata.
      Come si usa in Italia, dove all'avversario o rompiscatole che lascia il campo si fanno ponti d’oro, allo stesso modo, spedito finalmente nell'Aldilà l’ingombrante personaggio di turno, purché a decesso avvenuto e col certificato del medico, tutti, anche e soprattutto i nemici, improvvisamente parlano bene del Defunto. La soddisfazione di essere "postumi" è impagabile. Del resto, si sa, solo per la Chiesa e quindi solo in Italia i morti sono tutti Santi.
      Nel frattempo ci risuonano nelle orecchie le note stonate di "Bella ciao" suonata a tutto spiano ai suoi funerali "laici" (il nobile laicismo c'entra poco con Fo: non era meglio dire "non religiosi"?), una contraddizione stridente per una persona che - genio mimico e teatrale a parte - proprio negli anni di Bella Ciao era dall'altra parte della barricata. E si badi, l'altra parte allora non era il Fascismo "imborghesito" stile anni 30, ma proprio quello - se possibile - ancora più abietto e revanscista della RSI, vicina ai Nazisti! Si può, anzi si deve cambiare idea, se a vent'anni si era immaturi, ma poi un po' di buon gusto e un profilo basso e dignitoso per il convertito sono fondamentali.
      “Fu vera gloria?” Il Tempo lo dirà, e sarà inesorabile.

IMMAGINI. 1. La sua famosa risata. 2. Quattro espressioni della mimica di Dario Fo.

AGGIORNATO IL 14 OTTOBRE 2016